Nikolaj Coster-Waldau sfida i ghiacci (e se stesso)
Courtesy of Lilja Jonsdottir/Netflix © 2022

Nikolaj Coster-Waldau sfida i ghiacci (e se stesso)

di Andrea Giordano

Intervista all’attore danese, celebre nel ruolo di Jaime Lannister ne “Il Trono di Spade”, protagonista ora di “Against the Ice”

Avventura ed epica d’altri tempi, la stessa che per otto stagioni lo ha visto tra i volti più riconoscibili della serie tv per eccellenza degli anni 2000, Game of ThronesIl Trono di Spade, e che ora lo proietta ad una nuova sfida visiva. Nikolaj Coster-Waldau, 51 anni, da quel personaggio, il cinico e abile Jaime Lannister, si è (quasi) ormai distaccato, anche se la fama conquistata sul campo e piccolo schermo, lo ha però di fatto consacrato nel mito di una produzione unica, insieme ad attori come Peter Dinklage (nella sale in Cyrano), al punto da esserne ancora legato. Attore, sceneggiatore, si è caratterizzato, in oltre 25 anni di carriera, tra cinema (film come Oblivion, Domino di Brian De Palma, Le crociate o Black Hawk Down di Ridley Scott) e tv (l’anno scorso è stato Presidente di Giuria a Canneseries), e scrittura nel suo paese, la Danimarca, lui originario di Rudkøbing, dove produce documentari e progetti.

Ora, però, è il protagonista, nonché sceneggiatore, di Against the Ice, (dal 2 marzo su Netflix), presentato all’ultima Berlinale. Lo sfondo è il 1909, quando la spedizione artica, guidata dal capitano danese Ejnar Mikkelsen (interpretato proprio da lui) tentò di confutare la rivendicazione degli Stati Uniti sulla Groenlandia nordorientale, basata sul fatto che fosse divisa in due territori. Dopo aver lasciato nave ed equipaggio, Mikkelsen partì in esplorazione con un compagno inesperto, Iver Iversen, provando insieme che era un’unica isola. Ma il viaggio di ritorno si rivelò più impegnativo del previsto: nonostante la fame, la fatica e l’attacco di un orso polare, i due riuscirono a tornare alla base, ormai abbandonata. Isolati, al limite della sopravvivenza, seppero cementare il loro rapporto. Una storia di scoperta, amicizia, ideali, che racconta oltremodo il potere delle relazioni umane.

Cosa l’ha convinta ad abbracciare questa storia?

La sua essenza e il fatto che sia successa realmente in circostanze straordinarie. Come ogni lavoro c’abbiamo messo molto tempo per svilupparla, renderla credibile, ma insieme al mio co-sceneggiatore, Joe Derek, ci siamo messi a scrivere in maniera serrata. La fortuna è stata avere a bordo un regista come Peter Flynn, con la possibilità di girare tra Islanda e Groenlandia, seppure a -28 gradi. Un sogno realizzato. Qui combattiamo la natura, alla fine è sempre più forte di noi.

C’era anche un aspetto personale.

Amo la Groenlandia, la conosco da 25 anni, mio padre lavorava lì, in una base dell’aeronautica americana, nel nord. Ha sempre fatto parte della mia vita: è una seconda casa.

Cosa la guida di solito nel processo creativo?

A volte semplicemente mi chiedo “come si fa a dare una svolta originale a qualcosa con cui tutti abbiamo a che fare?”. La risposta è la stessa di sempre: le grandi storie, le più intriganti. Mi piace svilupparle, magari trovandole grazie ad uno scrittore, o in un libro:: sono interessato soprattutto ai dilemmi, anche contemporanei, che ogni giorno ci troviamo ad affrontare, ad esempio, contro noi stessi, contro il tempo.

Qual è la lezione che si porta dietro dopo anni di lavoro?

Che per raggiungere un obiettivo ci vogliono due cose, cuore e istinto.

Secondo lei è cambiato il nostro rapporto con le paure in questi anni?

Si sviluppa con il passare del tempo. Come quando ero bambino, per me era la paura della guerra nucleare. Oggi è altro. La paura sta nel modo in cui riusciamo, o non, a comunicare, nel modo in cui siamo costantemente bombardati dalle notizie: riguarda la reazione emotiva, ciò che scatta in ogni momento nel mondo. Stiamo guardando da qualche parte, ma il libero pensiero non appartiene ad una persona sola, è di molti. A volte è come essere sotto attacco, ci ritroviamo addirittura a censurare noi stessi, ad aver timore delle nostre stesse prese di posizione, invece dovremmo aprirci maggiormente alla conversazione, al confronto, al dialogo, ad un’onestà nuova.

Torniamo alla sua carriera, passando da Il Trono di Spade: è stato difficile abbandonare il personaggio?

Arrivati alla fine di un percorso del genere, la parte difficile è stata dire addio a un gruppo di persone con cui ho passato molto tempo. C’era un sentimento agrodolce, ma in realtà sono grato a quell’esperienza, mi ha aperto ulteriori porte prestigiose, come l’essere stato chiamato a diventare Ambasciatore di Buona Volontà per le Nazioni Unite. Oggi viaggio spesso nel mondo, incontro gente appassionata, eppure c’è il 50% dei giovani, tra i 18 e i 25 anni, che sembra aver perso fiducia. Invece abbiamo tutti i mezzi e le opportunità di cambiare il futuro.

Ci sono infatti movimenti capitani da volti come Greta Thunberg a stravolgere i numeri, no?

Penso che sia incredibile quello che ha ottenuto: far sentire la propria voce, coinvolgendo migliaia di persone. A scuola ci insegnavano l’effetto serra, le conseguenze del non agire, se ne discuteva, marciavamo, abbiamo fatto molto, ma forse non abbastanza. Ora è importante dire la verità, e non aspettare. O ci si attiva, o si rimane fino a 70, 75, anni, chiusi nella propria comodità: la mancanza d’azione, in un modo o nell’altro, può nuocere e generare la paura di cui dicevo prima. La differenza la fanno i ragazzi e ragazze come Greta.

Cambiamento climatico e lotta per la salvaguardia dell’ambiente: che valore hanno per lei?

Sono, o dovrebbero essere, nell’agenda di ognuno. È un’urgenza reale. Ma i social media forniscono un appoggio, è una voce molto più grande, più forte, dall’impatto maggiore, il che è molto positivo. Da giovane manifestavo anche io, cercavo di cambiare il mondo. Se lo fai con 100 persone è un conto, se richiami all’attenzione 100 milioni è una cosa immensa, che non deve però dividerci. Siamo tutti cittadini, per questo dobbiamo assumerci la responsabilità.