Pierfrancesco Favino sfida le “nostre” fragilità
Courtesy of Gianni Fiorito

Pierfrancesco Favino sfida le “nostre” fragilità

di Andrea Giordano

Intervista con l’attore romano che in “Promises”, il nuovo film di Amanda Sthers, ci regala una nuova ed inedita interpretazione

Metterci la faccia, talvolta usandola come scudo, maschera, per trasformarsi letteralmente, diventando i personaggi più impossibili, come Bettino Craxi (in Hammamet) o Tommaso Buscetta (ne Il traditore di Marco Bellocchio), e lì provare a raccontare una propria forma d’arte intrisa di umanità. Pierfrancesco Favino in questo senso è da sempre un numero uno, un attore in grado di sfidarsi ogni volta (basterebbe riguardare titoli come Acab, El Alamein o Padrenostro), ponendo la verità della recitazione al centro di tutto, innescando in chi lo osserva sentimenti contrastanti, sia stupore, spaesamento, commozione, voglia di riflettere, divertimento. Spiazza e si rinnova, come in Promises di Amanda Sthers, presentato in anteprima all’ultima Festa del Cinema di Roma (uscirà il 18 novembre in sala, distribuito da Vision), in cui interpreta Alexander, un uomo chiamato a guardarsi dentro, “costretto” dalle circostanze a fare i conti con se stesso attraversando rimpianti, delusioni, amori e occasioni perdute.

Il film parla di un personaggio che prende oltremodo coscienza riguardo alle proprie insicurezze, e fa un bilancio. Quanto se l’è sentito addosso?

Penso che faccio un mestiere che me lo chieda, forse deriva dalla vita che ho fatto, crescendo in un ambiente molto al femminile. Non ho mai pensato però che mostrare le proprie emozioni fosse un sintomo di debolezza, non ho mai vissuto la maschilità come quella cosa dura, che non si piega alle passioni. Anzi, e la ritengo una fortuna. Credo che in questo momento siamo tutti fragili, in contatto con le nostre paure, basta vedere gli ultimi due anni come c’hanno costretti ad aver a che fare con noi stessi: lì abbiamo scoperto quanto in effetti sentiamo questa insicurezza. C’è bisogno degli altri, ma da un lato ci siamo induriti, reagendo talvolta con violenza. La domanda è se accettare la propria fragilità, con tutte le conseguenze, o contrapporsi? Beh io ho scelto la prima strada.

C’è qualcosa che l’ha stupita recentemente in tal senso?

Stanno accadendo grandi movimenti intorno a noi, movimenti emotivi, non politici o sociali, il mondo sta vivendo un momento di grande connessione. Credo che il cinema e le arti, che per tanto e troppo tempo sono state messe da parte, considerate ‘tempo libero’, sono esattamente la guida, non la cura, ma i luoghi dell’attenzione a questo mondo, un mondo della nostra salute personale. E certamente il film ha a che fare pensando a certi argomenti.

Lei si è fatto più domande o dato risposte?

Ho a che fare con le persone, non con quello che rappresentano, perché il mio compito è di far vedere come si comportano, non di giudicarle. Ognuna, per quanto siano diverse, è un essere umano, ed è l’aspetto che continua ad interessarmi.

In Promises interpreta un esperto di libri. Qual è stato il titolo che ha segnato di più la sua infanzia?

Sono stato un lettore precoce, da bambino ero colpito da un’edizione della Divina Commedia illustrata da Gustavo Dorè, l’avevamo in casa, me la ricordo bene, era una cosa che parlava ad un mondo immaginario, non sapevo cosa fosse, ma mi attraeva. Avendo delle sorelle più grandi poi intorno a me vedevo pure Linus, riviste come Il Male, Fridaire, ero un avido lettore di fumetti, non lo rinnego. E lo sono ancora, rappresenta una cultura meravigliosa.

E verso i 20 anni?

Ero più vicino al mondo della poesia, visto che me la volevo un po’ tirare con le donne, sembravo un po’ “baudleriano”, giusto perché volevo rimorchiare.

Qual è il suo rapporto col tempo (che passa) invece?

Intanto è qualcosa che desidero, averlo di più, non perché ne senta la mancanza, semmai perché sono abbastanza avido di cose da fare. In questo momento mi sembra che tutto sia molto istantaneo, ho la sensazione che le cose nascano e muoiano, è una percezione personale, è come se ci fosse una nuova percezione del tempo, e la cosa mi spaventa.

Come mai?

Sento come se nulla avesse la capacità come detto di restare, è una sensazione, non so se è dovuta allo stato in cui viviamo, però la percepisco, e non mi piace. Tanto da farmi sentire ogni tanto “fuori tempo”, come appartenente ad un altro momento storico.

E riguardo la sua carriera?

Questo invece è un tempo molto bello. Guardando sempre avanti, penso che l’errore più grande che potrei fare è cristallizzarmi nell’idea di aver fatto delle cose che sono andate bene, e per quello non osare più, tentando di avere sempre garanzie. Vedo i margini che ancora ho di crescita, sono legati all’abbandono, al consentire agli eventi di avvenire in una maniera più naturale, ma per far sì che le situazioni riescano, bisogna che ci siano sempre delle condizioni professionali, e qui l’attore è uno degli elementi del processo. Come quando un pittore, attraverso tre segni, riesce a farti capire qualcosa, è quell’essenzialità, non virtuosistica, di pienezza del gesto, quello che vorrei riuscire a guadagnare.

Lei come lavora?

Sono uno che si prepara, si fa domande, personalmente se mi bastavo com’ero perché avrei dovuto fare l’attore? La spontaneità non mi interessa, semmai punto alla creazione artistica che può confondersi con la verità fine a se stessa. I grandi attori sono quelli in cui non vedi più nessuno sforzo, sempre in corsa, noi siamo come dire gli ingranaggi di una storia, non la storia, ed è l’aspetto più difficile da imparare, per questo devo lasciare lo spettatore libero di farsi il suo film, non il mio. Alle lacrime di Buscetta, ad esempio, c’ho sempre creduto, eppure io lo stavo solo rappresentando, ma se avessi, come dire, ‘strizzato’ l’occhio allo spettatore per dirgli quanto sono bravo, allora avrei interrotto un rapporto sacro tra storia e pubblico. Ci vuole una vita per un individuo per ipotizzare a riconoscersi, ed ora arriva Favino a interpretare meglio di altri Craxi? Non è possibile, questa un’operazione plastica, una rappresentazione, ed è questo l’elemento affascinante, perché non è reale, e può essere qualunque cosa.

Da poco è anche diventato Direttore Artistico della Scuola di formazione “Oltrarno”, a Firenze. Cosa vorrebbe passare ai giovani come insegnamento?

Non penso che esista un metodo, ogni attore è diverso, alcune cose funzionano per qualcuno, per altri cambia, perché sono estremamente sensibili alle immagini, o alla sceneggiatura. Quello che provo a far insegnare, anche perché ci sono ottimi docenti di professione, non è imporre loro una maniera di lavorare, ma dare gli strumenti per fargli capire chi sono, che possono usare la loro unicità, riuscendo a fare squadra. Un attore prima di diventare tale ha bisogno, nuovamente, di tempo, ciò che non auguro ai miei studenti è di raggiungere subito il successo. La scuola deve pulire, mettere in condizione di costruire il proprio gusto, e di non avere dei vizi, ma gli artisti, alla fine, devono essere anche liberi di essere e di immaginarsi quello che vogliono.