Schumacher, una vita da leggenda
Courtesy of Darren Heath/Getty Images

Schumacher, una vita da leggenda

di Andrea Giordano

Un documentario in onda su Netflix, “Schumacher”, celebra per la prima volta il grande ex pilota tedesco

La mortalità degli dei, in grado di resistere alle avversità della pista, in campo, e che poi, colpa di un destino imprevedibile e ingeneroso, si fermano per sempre. Cambiano, tornano dolosamente con i piedi per terra. La vita di Michael Schumacher, il “Kaiser” dell’automobilismo, sette volte campione del mondo di Formula 1, tra Benetton e Ferrari, ha seguito in questo senso una parabola misteriosa e beffarda.

Un’esistenza imprendibile, fatta di vittorie e sconfitte, attese e rinascite, e un talento puro, fin dal debutto in Jordan nel 1991, capace di segnare il tempo e generazioni di appassionati, tecnici, seguaci del bel gesto, del sorpasso sopraffino, ma non ha fatto i conti con qualcosa di totalmente innaturale, anche per un Dio sportivo come lui. Il 29 dicembre 2013, sulle piste di Méribel, in Francia, avvenne quello che mai nessuno avrebbe pensato, un incidente sugli sci, la testa contro una roccia coperta dalla neve, le condizioni critiche, poi stabilizzate, e da lì la caduta nell’oblio, su di lui e le condizioni di salute protette da fughe di notizie e occhi indiscreti. Come se d’un tratto fosse scomparso.

Ma adesso, dopo anni di silenzio, a celebrare l’uomo, e il pilota, arriva dal 15 settembre su Netflix un documentario, Schumacher, diretto da Hanns-Bruno Kammertöns, Vanessa Nöcker e Michael Wech, ma voluto, autorizzato dalla stessa famiglia, la moglie Corinna, i figli Mick (attualmente alla guida della Haas) e Gina, il padre Rolf, il fratello Ralf. L’omaggio per far rivivere la sua leggenda attraverso non solo immagini d’archivio, anche personali, corse, tappe formative (da Spa, fu il primo acuto a 23 anni, a Silverstone, Suzuka), ma soprattutto grazie allo sguardo di chi lo ha conosciuto (bene) e spronato dietro le quinte, o gareggiandoci contro: l’ex manager storico, dal 1988 al 2009, Willi Weber, Flavio Briatore, Luca di Montezemolo, Bernie Ecclestone, Jean Todt, Ross Brawn, il biografo ufficiale James Allen, i rivali-amici-estimatori, da Mika Häkkinen, Damon Hill, Eddie Irvine, Mark Webber, a David Coulthard. Tutti uniti per raccontare lo Schumi globale. Per far rivivere, altresì, sullo schermo, il padre-marito affettuoso, che da eroe su quattro ruote, si trasformava nel privato, anzi lo difendeva con forza nei confronti dei media.

Due Michael a confronto, eppure la stessa persona.

Quello inflessibile, veloce, determinato e competitivo da un lato, e poi quello inedito, che canta My Way alle feste, scherza e si diverte con i meccanici giocando nei box a pallone (sua altra grande passione), quanto lo Schumacher impulsivo, difficile da cogliere nel profondo, per quella sua aurea malinconica e divina, concentrata a spingere i propri limiti, senza timore di sbagliare, o morire. Pronto a rincorrere la perfezione, come fosse un attore sul palco, bisognoso di accontentare in primis se stesso, e poi il proprio pubblico, anche se a inizio carriera confidava: “Non fatemi diventare una star, non spingetemi troppo in alto, non voglio.” Schumacher lo è diventato, nonostante non fosse d’accordo, sfidando altrettanti miti come Mansell, Prost, e quell’Ayrton Senna su tutti, che morì a Imola nel 1994, in un Gp da lui vinto, ma che è rimasto in lui quasi a fermentare, tanto da diventare un’ossessione buona, un tabù da inseguire e superare nelle lacrime, quando alla vittoria numero 42 (su 91 totali), ne eguagliò la grandezza.

Una liberazione. La svolta, per consacrarsi ulteriormente e generare ispirazione nei confronti dei futuri campioni, come Sebastian Vettel, o Lewis Hamilton, che ora prova a superare (ultimo tassello) il suo record di campionati. Schumacher rimane, non si dimentica, o come dice la moglie “Michael manca a tutti, eppure Michael è qui. È diverso, ma è qui”.