Una vita alla Steve McQueen
Foto: Henri Bureau/Sygma/Corbis/VCG via Getty Image

Una vita alla Steve McQueen

di Andrea Giordano

Quarant’anni senza Steve McQueen e il suo carisma. Proviamo a raccontare l’attore simbolo di una generazione, da “La Grande Fuga” a “Getaway!”, capace di ispirare ancora oggi.

Il “Re del cool”, o semplicemente l’attore più amato del mondo: Steve McQueen. A 40 anni dalla scomparsa (era il 7 novembre 1980), il suo mito e leggenda proseguono intrepidi proprio com’era lui, con la sua amabile ed elegante aria da sbruffone. Un uomo apparentemente allergico alla perfezione, che poi, però, quasi paradossalmente, nella vita, sul set, da pilota provetto, sapeva coglierla e inseguirla in ogni sfumatura, pure produttiva, mostrandosi oltremodo anticonformista e lontano dalle regole di Hollywood

Il McQueen pensiero dunque, nelle mille sfumature che lo hanno caratterizzato, si è insinuato nell’amore per il rischio, il bisogno di adrenalina, in quel senso di potere che lo ha reso un cavallo di razza unico, e di personalità nel convincere anche gli altri, donne bellissime (su tutte Neile Adams che lo sposò davvero) e orde di fan, che fosse già immortale da vivo. Il cinema quasi per caso, arrivato in una piccola parte di Lassù qualcuno mi ama, dove già giganteggiava un certo Paul Newman. Grazie a quel volto intoccabile, a quegli occhi azzurri impenetrabili, diventa subito universale, sconfina, evade letteralmente, realizzando imprese impossibili quasi come fosse l’ergastolano Henry Charrière, detto Papillon, interpretato magistralmente nel film omonimo di Franklin Schaffner.

Anima e pelle dura, Steve il grande, Steve lo spericolato, l’antieroe per eccellenza, ha incarnato presto il coraggio da leone di chi arriva dalla strada, e dal nulla, realizzando l’inverosimile, elevandosi a star internazionale già negli anni ‘60, per poi cadere, rinascere, prima della fine, e vincere un secondo viaggio avventuroso e artistico. Lui, cresciuto in una fattoria del Missouri insieme allo zio, abbandonato dal padre stuntman, tornò, dodicenne ribelle, a vivere con la madre a Los Angeles. A raddrizzarne parzialmente il temperamento fu l’arruolamento nei Marines, ben tre anni, e l’ingresso al celeberrimo Actor’s Studio di Lee Strasberg, il tempio della recitazione nella ‘Golden Age’ cinematografica. Dopo le prime apparizioni, il debutto arriva grazie a Blob – Fluido Mortale (siamo nel 1958), e da lì si trasforma. Da bandito occasionale (Gli occhi del testimone), caporale (Sacro e profano), a tenente della marina militare, approda subito nel famigerato terreno western, quello de I magnifici sette di John Sturgess, nei panni di Vin Tanner, pistolero–resiliente dallo sguardo assassino.

È poi andato in prima linea, cinematograficamente parlando, durante la Seconda Guerra Mondiale (L’inferno è per gli eroi di Don Siegel), in uno dei suoi ruoli maggiormente riusciti, il capitano Virgil Hilts de La grande fuga diretto nuovamente da Sturgess, calandosi in uno splendido Cincinnati Kid, giocatore di poker nella New Orleans anni ‘30. Nel vecchio west, al fronte, straordinario altresì nel poliziesco, come in Bullitt (indimenticabile l’inseguimento su una Ford Mustang), McQueen ha sempre cercato l’impatto, affrontandone di petto le conseguenze. Quando il successo è sembrato vacillare, o non accontentare più, ha infilato ancora ruoli simbolo, come la zampata del campione: Il caso Thomas Crown, nei panni di un ladro gentiluomo e affabile uomo d’affari, il Carter ‘Doc’ McCoy; e poi accanto ad Ali MacGraw (la seconda consorte) in Getaway! di Sam Peckinpah, o il comandante dei vigili del fuoco in Trappola di cristallo. Nel suo essere pavido, l’adorato rumore dei motori non lo ha mai di fatto abbandonato, anzi si è tradotto quasi in ossessione, al punto di cimentarsi davvero al volante, partecipando alla 12ore di Sebring (tagliando il traguardo secondo), a girare una pellicola ambiziosa come Le 24ore di Les Mans, a volare pure sulle due ruote, a bordo di una Triumph Bonneville.

Una vita spericolata, come recita il sottotitolo del bel documentario a lui dedicato, scritto da Gabriel Clarke e John McKenna, una vita scandita dalla competizione, spentasi purtroppo a soli 50 anni. Un mito, la cui luce, però, continua a dominare il nostro immaginario.