Vini rossi di lusso da provare almeno una volta nella vita
Le riserve di Biondi Santi

Vini rossi di lusso da provare almeno una volta nella vita

di Aldo Fresia

Un Brunello, un Amarone e un Barbaresco: bottiglie eccezionali e con un blasone favoloso.

Spesso commettiamo un errore: pensiamo che bottiglie di lusso meritino un’occasione unica, poi quel momento non si presenta e certi assaggi restano confinati nel mondo dei desideri irrealizzati. Ma se l’occasione non c’è la si crea e certi vini bastano da soli a concretizzarla: per questo abbiamo selezionato tre vini rossi monumentali, che appartengono all’Olimpo dell’enologia italiana, ammirati, ambiti e ricordati con emozione da chi non vede l’ora di ritrovarli sulla propria strada.

Brunello di Montalcino Riserva Il Greppo, di Biondi Santi

Giù il cappello di fronte alla storia del Brunello. Anni fa esplose la moda di questo vino e la richiesta crescente della tipologia riserva, unita a una certa fretta di capitalizzare, portò a vagonate di bottiglie anche mediocri: c’è chi si riferisce a quel periodo chiamandolo Brunellopoli, un nome che dice tutto. In quel momento Franco Biondi Santi, con calma e autorevolezza, non si discostò da tradizione e qualità, ignorando le mode e curando personalmente la Tenuta Greppo, un luogo dove il Sangiovese cresce che è una meraviglia.

La riserva Biondi Santi si produce solo nelle annate davvero eccezionali e la più recente, quella del 2012, è la trentanovesima dal 1881. Sarebbe dovuta uscire l’anno scorso, ma si è deciso di farla riposare ancora dodici mesi perché si esprimesse al meglio: anche questo è un chiaro segnale d’eccellenza. È dedicata al dottor Franco, recentemente scomparso, e chi l’ha conosciuto sostiene che vino e uomo si somiglino: eleganza sobria, straordinaria piacevolezza e sostanza, ma senza eccessiva austerità e men che meno spocchia. Un vino fuori dall’ordinario, con un finale lunghissimo che sembra un tramonto d’estate.

Amarone della Valpollicella classico, di Giuseppe Quintarelli

Se c’è un vino capace di fare litigare gli appassionati come fossero cani e gatti, questo è l’Amarone. Il polo della discordia sta nella peculiare lavorazione dell’uva, che dopo la vendemmia viene fatta appassire su graticci di legno o plastica e solo in un secondo momento spremuta. I detrattori sostengono che in questo modo il processo produttivo conta più della qualità delle uve e dunque si può giocare sporco sul lavoro in vigna. ‘Assurdo’, rispondono i sostenitori, convinti che non si può in alcun modo rimediare a una coltivazione approssimativa.

Esiste la possibilità di trasformare la più accesa discussione nel classico ‘tarallucci e vino’ se il nettare in questione è firmato Quintarelli, un fuoriclasse indiscusso della viticultura italiana, capace di mettere d’accordo tutti al primo sorso grazie a bottiglie dal carattere energico, che uniscono la pienezza vellutata della frutta rossa (amarena e lamponi in particolare) a un’acidità elegantissima.

Barbaresco, di Angelo Gaja

In modo cocciuto e lungimirante Angelo Gaja ha rivoluzionato la storia del vino piemontese e italiano, mutuando dai francesi accorgimenti che garantiscono eccellenza (ad esempio ridurre la resa per ettaro e introdurre la fermentazione malolattica) ma senza importare i loro vitigni: era convinto che un grande vino potesse nascere solo da uve autoctone, in questo caso Nebbiolo in purezza. Il tempo gli ha dato ragione e l’ha trasformato nell’alfiere del Barbaresco, il metro di paragone in base al quale valutare tutti gli altri.

Stappare una sua bottiglia significa presentarsi al cospetto di un vero cavallo di razza, un vino di straordinaria espressività, fiero, vigoroso e insieme elegante e vellutato. Al naso e in bocca è una costante evoluzione, da un paesaggio organolettico al successivo, in una cavalcata che avviene con sorprendente naturalezza.