Arte, cinema, moda: lo sguardo sul mondo di un hollywoodiano dall’approccio british. Soprattutto se si tratta di privacy

Sin dalla sua ascesa ai vertici dello star system alla fine degli anni 90, Jude Law è diventato uno dei nomi immancabili della A-list, certamente tra i più cool, stella di sicuro successo al botteghino. Al punto, forse, da aver rischiato di inflazionare la propria immagine, così che ultimamente sembra scegliere le sue parti con più attenzione.

Lo abbiamo incontrato a Parigi, è impegnato nel lancio promozionale di Vogue Eyewear for Men (Law è il testimonial della campagna pubblicitaria su scala mondiale).

Mr. Law, qual è l’ultimo posto al mondo in cui indosserebbe gli occhiali da sole?

«In un nightclub. Ti trovi all’interno, di solito ci vai la sera, e con gli occhiali da sole hai solo un’aria idiota. A me piace metterli quando c’è… il sole. È un po’ strano usarli sul genere “ecco, così non puoi vedere la mia faccia”. C’è un solo uomo al mondo che se lo può permettere, ed è Jack Nicholson».

Karl Lagerfeld potrebbe essere un altro.

«Ha ragione, sono due». (Ride.)

Peter Lindbergh, autore delle foto della campagna pubblicitaria di cui è protagonista, è un maestro riconosciuto. Che cosa cambia, per lei, quando lavora con fotografi che non conosce?

«Sarò sincero: oggi cerco di limitare situazioni del genere al minimo indispensabile. Quando sei agli inizi non te lo puoi permettere, e di tanto in tanto ti becchi qualche fregatura, con qualcuno che ti chiede di fare le cose più ridicole. Poi arrivi a un certo punto e non sei più costretto a farlo. Passare qualche giorno con Peter è un piacere. Non ti sembra nemmeno di lavorare. È una persona molto, molto divertente. Ed è velocissimo, il che a volte può essere sconcertante. Ma è anche positivo, perché ti ritrovi a fare le cose in fretta senza neppure accorgerti che le stai facendo. E lui è lì che scatta una foto dietro l’altra, ma è sempre tutto molto naturale».

Perché molti attori non amano essere fotografati?

«La gente a volte confonde il nostro lavoro con quello dei modelli. In realtà è molto diverso. Quando stai interpretando un ruolo, non sei più tu. In quel mondo ti senti al sicuro e puoi dare il meglio di te, impegnandoti a seguire le regole che quella parte richiede. In un ritratto fotografico sei nudo, privo di tutto questo, è un’esperienza completamente diversa. Il fatto che ti chiedano di essere te stesso e allo stesso tempo di fare cose stupide è imbarazzante».

Si interessa di arte? Qual è stato l’ultimo artista che ha catturato la sua attenzione?

«Sono appena tornato da New York, e lì ho visto uno scultore italiano che si chiama Pier Paolo Calzolari. Era ironico, brillante».

C’è un artista che le piace da sempre?

«Da bambino mi piaceva Rothko. Credo sia perché sono daltonico, specialmente con i colori rosso e verde e, quando ho visto Rothko, è stata la prima volta che ho distinto i rossi, i verdi e i marroni. Ho visto le serie rosse quand’ero piccolo. Mia madre mi portava in un sacco di musei».

David Hockney disse una volta: «È un buon suggerimento credere a ciò che un artista fa piuttosto che a quello che dice sul proprio lavoro». Vale anche per gli attori?

«Senza dubbio. Credo che valga per qualunque artista. Ci sono un mucchio di cose che faccio come attore che non capisco – né sono tenuto a capirle. Uno dei lati negativi ma inevitabili di questo mestiere è che devi fare un mucchio di interviste, il che può essere interessante se ti fanno domande intelligenti, ma a volte pensi dentro di te: “Perché dovrei spiegare me stesso? Non ho nulla da dire”. Non puoi rispondere: “Non lo so”, ma non sempre sai perché hai fatto una certa cosa».

Le capita mai di leggere interviste di altri attori?

«Ho smesso di farlo di recente, non voglio conoscere i loro segreti, dell’analisi che hanno compiuto su se stessi o che sono morti di fame per sei mesi per interpretare la parte. Credo che questi siano trucchi del mestiere e non andrebbero divulgati».

Considera la recitazione un’arte?

«È senza dubbio un mestiere che richiede maestria, abilità artigianale. È un’arte? Sì, in un certo senso lo è. In determinati film più che in altri. Dipende dal regista, dal soggetto e dal mezzo di comunicazione scelto. A teatro, in generale, si percepisce molto più come una forma d’arte che non in un film. In alcuni film ti viene richiesto di avere un approccio artistico al tuo ruolo; in altri sei un artista tanto quanto lo sono i tecnici delle luci o i ragazzi del catering».

Testo: Sven Schumann

Fashion editor: Peter Lindbergh