Il nostro nome è Bond, James Bond…

Il nostro nome è Bond, James Bond…

di Gabriele Niola

L’agente 007 compie 60 anni, ma è in gran forma. Il segreto? Cambiare. Per adattarsi allo spirito dei tempi: con autoironia, mostrandosi fragile e arrivando perfino a prendere qualche due di picche (ma sempre con stile)

Essere James Bond non è più stato così facile e naturale come lo era negli anni 60. Tutta la storia dell’evoluzione del personaggio 007 nella cultura popolare a partire dal primo film, uscito 60 anni fa, è stato un continuo nuotare controcorrente. Il mondo, tutto il mondo, andava in una direzione e James Bond invece, fieramente, è sempre stato un monumento al dopoguerra. Già nel 1962, quando usciva Licenza di uccidere, James Bond era vecchio di dieci anni (il primo romanzo, Casino Royale, è del 1952). In quella decade, il superuomo per tutti, risposta a mille altri agenti segreti (del cinema, non della letteratura) che avevano successo, era il più camp ed esagerato, vestiva in modi eccessivamente raffinati, era eccessivamente cool, aveva donne eccessivamente belle in dosi eccessivamente massicce. Era un personaggio come ne esistevano già, ma al massimo. L’uomo perfetto.


È durato poco, lo stesso Sean Connery ha fatto in tempo a dover interpretare uno 007 un po’ revisionista (in Una cascata di diamanti in cui, grande allegoria, viene menato da due donne) e mentre il suo successore George Lazenby non ha avuto tempo di capire dove si trovasse, Roger Moore ha dovuto rivedere il personaggio all’insegna di una fortissima ironia per sostenere qualcosa che già non era più perfettamente credibile. Erano gli anni 70 dei polizieschi americani, di Steve McQueen e Clint Eastwood, quando Moore doveva continuare a fare stunt impossibili (in L’uomo dalla pistola d’oro salta con un’auto avvitandosi in volo e riatterrando correttamente, e fu fatto sul serio, senza effetti speciali) e non si poteva che sorridere di tutto questo modo di essere uomini sopra le righe. Per questo, quando dopo la crisi degli anni 80 è arrivata la rinascita con Pierce Brosnan, tutto doveva cambiare. GoldenEye è stato un film cruciale in questo senso, capace di rifondare il mito tenendo un piede nella tradizione dello stile, delle grandi macchine, degli abiti su misura e della classe (in quell’occasione anche Omega, per la prima volta, metteva nero su bianco un product placement ufficiale che da allora, era il 1995, ne avrebbe fatto “l’orologio di James Bond”), ma dall’altro lato riconosceva per la prima volta i tempi cambiati.


OMEGA
Seamaster Co-Axial, automatico in acciaio, uno dei modelli
indossati da Daniel Craig in No Time to Die. È stato
battuto all’asta di memorabilia di 007, organizzata da Eon
Production e Christie’s lo scorso 28 settembre, per 119.700
sterline (il ricavato della vendita è stato devoluto a Orbis International)

In quel film 007 è preso in giro, è un relitto di un mondo in trasformazione (e anche la trama ha a che fare con i relitti del vecchio spionaggio, a partire dalla dissolta Unione Sovietica). Il suo capo è una donna che lo comanda e lo evira metaforicamente minando la sua retorica da conquistatore. Le conquiste continuano a non mancare ovviamente, perché si pensava che anche al cambiamento ci fosse un limite, ma era chiaro che questo non fosse più il campione della modernità, era semmai un classico, qualcosa che viene dal nostro passato e che ci piace ancora guardare per quanto fuori dal mondo. Perché poi, a partire da quel film, James Bond ha ricominciato a incassare e incassare tanto, non è più uscito dalla cultura collettiva anche per merito dei Broccoli (storici produttori) che nell’iterazione successiva, quando è toccato a Daniel Craig, hanno cambiato ancora.  Quella volta era per adeguarsi al cinema d’azione che era stato rivoluzionato da The Bourne Identity e dal suo passo più violento, tecnico e duro. 


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James Bond (Daniel Craig) in
NO TIME TO DIE,
an EON Productions and Metro-Goldwyn-Mayer Studios film
Credit: Nicola Dove
© 2021 DANJAQ, LLC AND MGM. ALL RIGHTS RESERVED.

Così arriva lo 007 muscoloso e selvaggio che Craig è stato bravissimo a tenere saldamente unito a quello di classe. Scopriremo in quel ciclo le origini, il suo essere diventato quel che conosciamo e non esserci nato e lo vedremo fragilissimo. Già nel primo film con Daniel Craig, Casino Royale, ci sono pianti nella doccia, perdite e grandi dolori impensabili per gli altri interpreti. È partito un arco narrativo che sarebbe durato circa 15 anni, chiuso da No Time to Die quest’anno, in un mondo del cinema, ma soprattutto in una società completamente diversi. Il nuovo ruolo delle donne è stata una rivoluzione partita proprio dal cinema, che ha portato prima a una centralità maggiore di Léa Seydoux, amore di questo 007, e poi nell’ultimo film, il primo arrivato nel post #metoo, a tutto quello che pensavamo non avremmo mai visto. James Bond che per due volte fa per concupire una donna e viene in modi diversi rifiutato. James Bond che va in bianco. James Bond addirittura padre! Capriole tenute insieme da una sceneggiatura abbastanza compatta e ancora da Craig che fa gli straordinari per dare coerenza a questi contrasti, per andare cioè in bianco con la coolness e l’understatement di 007. Due di picche sì, ma con stile.  E ancora il pubblico premia. 

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James Bond (Daniel Craig) prepares to shoot in
NO TIME TO DIE,
an EON Productions and Metro-Goldwyn-Mayer Studios film
Credit: Nicola Dove
© 2021 DANJAQ, LLC AND MGM. ALL RIGHTS RESERVED.

No Time to Die non segna una decadenza nel gradimento, incassa benissimo e dimostra che ciò che nasceva per essere immutabile in realtà più muta e più è apprezzato. Ora il nuovo attore che interpreterà 007 sarà selezionato con una cura tripla rispetto a quella già alta del passato, perché sarà chiamato a incarnare la più grande delle rivoluzioni, non più una pezza messa per aggiustare in corsa certi toni, ma il nuovo superuomo moderno. L’agente segreto dell’MI6 di domani dovrà trovare un modo nuovo, contemporaneo e non machista per essere il migliore e più desiderabile di tutti i maschi.