Luca Guadagnino, regista artigiano: “In fondo mi considero un outsider”

Luca Guadagnino, regista artigiano: “In fondo mi considero un outsider”

Luca Guadagnino, instancabile, “debutta” come showrunner nella serie tv “We Are Who We Are” (in onda su Sky Atlantic a partire da oggi). Nel frattempo, lo abbiamo visto all’ultima Mostra del Cinema di Venezia con il documentario-gioiello su Salvatore Ferragamo. Lo abbiamo intervistato.

Foto: Franco Origlia/Getty Images
di Andrea Giordano

Sogni, non solo per sé, ma condivisi, pensando al presente-futuro del cinema e televisione, dove oggi, lui, è una delle voci maggiormente rappresentative e sensibili. Luca Guadagnino è inarrestabile nel fabbricare, da regista-artigiano, creature di assoluta bellezza narrativa e visiva. Basterebbe semplicemente riguardarsi Chiamami col tuo nome (Oscar per la sceneggiatura non originale a James Ivory) o Io sono l’amore per averne ulteriore conferma. Senza dimenticare gli ambiziosi remake di Suspiria di Argento e quello – altrettanto atteso – di Scarface di Brian De Palma. Ma l’ultimo esempio in tal senso arriva, però, dal piccolo schermo con We Are Who We Are, la sua prima esperienza seriale, in onda su Sky, e in streaming su NOW TV. Otto episodi–gioiello diretti, pensati e scritti insieme a Paolo Giordano e Francesca Minieri per narrare una storia di formazione e di passaggio, esplorando l’universo di due quattordicenni americani, Fraser e Caitlin, “racchiusi” nel microcosmo famigliare di una base militare americana in Italia.

“Siamo chi siamo”, titolo quanto mai meraviglioso ed essenziale, indaga così il desiderio di consapevolezza e la ricerca d’identità, che di fatto non appartengono a nessuna geografia o genere sessuale. Attraverso due stelle nascenti, l’ottimo Jack Dylan Grazer e Jordan Kristine Seamón, personaggi moderni e vitali, Guadagnino celebra così la vita, facendo leva sulle sue ispirazioni, gli incontri emotivi e intellettuali: la poetica di Walt Whitman, la colonna sonora di Devonté Hynes (aka Blood Orange), o figure maestose come Maurice Pialat (evocando le atmosfere di Ai nostri amori o Sotto il sole di Satana), Chantal Akerman, Bernardo Bertolucci. Confronti ideali per intercettare il disincantato, il sacro del rituale generazionale e la volontà di mettere in atto il cambiamento. L’idea di bellezza viene dunque accostata al gusto del dettaglio, che scorrendo la sua parabola personale tocca tante corde di ispirazione: Ravel, Bach, Sakamoto, Giorgio Moroder, Franco Battiato, Thom Yorke, i romanzi di Thomas Mann o i libri di cucina di Paul Bocuse. Ispirazioni preziose che il regista palermitano ha disegnato anche all’ultima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia raccontando una leggenda assoluta come Salvatore Ferragamo, nel documentario Salvatore – Shoemaker of Dreams. Un incredibile viaggio di cinema, moda, epica personale, di ascesa e successo, sacrificio e inventiva, ma soprattutto di genio assoluto. E radici, quelle vive, profonde, le sue, mostrate in un cortometraggio, sempre a Venezia, in Fiori Fiori Fiori! Una scommessa per non dimenticare chi è e chi è stato.

Com’è andata allora questa prima avventura seriale?
Ogni impresa che affronti ti cambia, ed è sempre un nuovo inizio. Abbiamo vissuto il tutto con spensieratezza, girando per 94 giorni, ed era entusiasmante vedere come le nostre idee prendessero forma. Almeno per me, la ragione per cui sono qua è stata loro, Paolo Giordano e Francesca Manieri e gli interpreti, insieme hanno fatto un lavoro incredibile.

Un (non) luogo, come una base militare, dove ambientare la storia: come mai?
Mi piaceva l’idea di trovare una porzione piccola, da poter dominare, per tentare di essere poi universali, così è nata l’intuizione della base militare. È un luogo relativamente piccolo, ma che presenta delle caratteristiche che possono essere declinate in un senso universale rispetto, per esempio, all’identità americana, in più si poteva introdurre un altro livello molto interessante: quello della disciplina, della risposta ai comandi o della trasgressione degli stessi.

“Mi sono guardato indietro per andare avanti”, dice Ferragamo nel documentario. Il bisogno di tornare, prendere la rincorsa e ripartire: è stato così anche per lei?
È interessante l’accoppiamento di questi progetti (documentario e corto, ndr), così diversi, imparagonabili, in termini delle loro proporzioni. Averli visti accanto ha fatto emergere in entrambi una sorta di desiderio di radici. Sicuramente quando Ferragamo torna dall’America e va a Napoli, e dice “andiamo a Bonito” dai suoi parenti, è un sentimento che io capisco perfettamente. Non è una cosa astratta, ma molto precisa: perché nonostante quello che uno può compiere nella propria vita, nonstante i viaggi, inventati o fisici, il senso di appartenenza alla fine non può essere cancellato.

Due scelte diverse.
Il cortometraggio è un gesto intimo, realizzato in un momento specifico (il lockdown) e complicato della mia sfera personale, l’altro è un lavoro complesso, lungo.

Fabbricare i sogni, nella moda, come al cinema: quanto è importante, da regista, che lo si faccia?
L’idea di perseguire i propri sogni può sembrare una banalità, invece è un tema serio, se questo ha a che fare con il rivoluzionare l’immaginario altrui. La soglia dell’onirico ci appartiene in maniera molto profonda e radicata nella nostra presenza di esseri, e quando il sogno è imperturbante allora mi interessa. Ferragamo, lo dico da umile osservatore, è stato un uomo capace di rischiare ed esporsi. Quando realizzo un film ho il privilegio di fare cinema senza pensare che sia un mestiere, mi pagano per quello, ed è fantastico, però io lo farei comunque, e sono gesti intimi. Credo che Ferragamo lo avesse ben chiaro. Ogni cosa è nata da una vocazione profonda, poi ovvio lui aveva una capacità imprenditoriale straordinaria.

A proposito di sfide come Suspiria, Io sono l’amore. Riguardandoli a distanza sembrano vere collezioni, fonti di ispirazione da rivedere in passerella. Che ne pensa?
Dirigere una pellicola è un’impresa complicata, che coinvolge parecchie identità artistiche e produttive, ma da quando è nato il cinema ho avuto desiderio di collaborare con diversi linguaggi creativi, incluso ovviamente la moda. Ferragamo vestiva le grandi dive, come altri stilisti tra cui Givenchy, Saint Laurent, Dior. Questo sistema è virtuoso, permette appunto nella somma dei talenti coinvolti un fiorire di potenzialità belle, penso al grande montaggio di Walter Fasano, o all’animazione di Pes in chiusura. Non credo però che Suspiria, o altri lavori, siano degli “oggetti” che si possono applicare all’arte della moda, ma se quel mondo ha interesse nel mio di lavoro posso solo essere pieno d’orgoglio e altrettanto, orgogliosamente, fiero di collaborare con le maison per fare “film di moda”.

Il documentario arriverà prossimamente in sala, e non su piattaforma.
Le emozioni, condivise nel ventre buio della sala, sono un’esperienza più forte di qualunque cosa, che non è da barattare. Per quanto le forze oscure del capitalismo vogliono farci credere il contrario, Tenet è uscito sul grande schermo e ha fatto un sacco di soldi. I risultati del botteghino ci stanno dicendo chiaramente che la gente sente l’esigenza di tornare in sala, è quasi irrinunciabile, certo è che esistono player enormi, Netflix, Disney, HBO, Amazon, che hanno tutto l’interesse perché questo scompaia.

Tra i vari guest speech ha coinvolto Martin Scorsese (nella serie c’è invece la figlia, Francesca, ndr), come mai?
È figlio di emigrati e rappresenta il simbolo perfetto di un altro tipo di immigrazione, che osa e crea. A me sembrava necessaria la sua presenza e ne siamo felici, è un uomo generoso, incredibile, che quando sente una passione risponde sempre.

Ferragamo aveva sdoganato e portato avanti anche un aspetto molto contemporaneo, la sostenibilità creativa. L’etica della moda, insomma, è quanto mai sulla bocca di molti brand. Cosa ne pensa?
È un argomento enorme. Sono processi lenti, necessari, che hanno molto a che fare con i sistemi di produzione e fatturato delle grandi case di moda. Evidentemente se l’intersezione tra la sostenibilità e il capitale si incontrano è una cosa virtuosa e mi sembra che la direzione sia quella.

Non ritrova qualche assonanza pensando alla sua vita?
La storia di Ferragamo è, soprattutto, anche, una storia legata a Hollywood, ma non oserei mai paragonare la mia esperienza. Lui è stato un fuoriclasse. Diciamo che per affinità amo pensare, e mi affascina, il suo lato di outsider, in quanto io stesso, in fondo, mi considero tale.