Talenti moderni: ecco Regé-Jean Page

Talenti moderni: ecco Regé-Jean Page

Abbiamo intervistato Regé-Jean Page, attore anglo-africano, protagonista della serie “Bridgerton”, in onda su Netflix, a partire dal giorno di Natale, e tratta dai bestseller di Julia Quinn. Una storia ambientata nel passato, ma pronta a confortarci nel presente e durante le feste.

Courtesy of LIAM DANIEL/NETFLIX
di Andrea Giordano

Eleganza e personalità d’altri tempi ma sguardo sul contemporaneo, diviso tra cinema, tv e teatro. Regé-Jean Page, trent’anni, attore inglese, nato però in Zimbabwe, è il talento di dicembre (e fine anno), protagonista maschile della nuova serie-evento Bridgerton (in onda su Netflix dal giorno di Natale), basata sui bestseller scritti da Julia Quinn. Un tuffo nel passato ed in costume, nella Londra del 1813, scandita da mondanità, aspettative e debutti in società, impersonando il ribelle Simon Bassett, Duca di Hastings, scapolo e desiderato, quanto avvolto dal mistero. Bella sfida, per lui, iniziatosi in lavori come For the People e Waterloo Road (lo vedremo pure in Sylvie’s Love, accanto a Thessa Thompson) affrontando soprattutto un personaggio che, gradualmente, si svela nella sua essenza, innamorandosi altresì della rampolla, Daphne Bridgerton, interpretata dall’altra rivelazione, Phoebe Dynevor. Radici e valori profondi i suoi, portati anche in scena nella miniserie-remake, Roots, ma che ora prova a ricucire, raccontandoci la sua vita, fuori e dentro la scena.

Che esperienza è stata?

Sono partito dal libro: un dramma storico, appassionante, romantico, quindi in termini di preparazione, avevo già a disposizione del materiale incredibile come racconto, che è stato lett da migliaia di persone in tutto il mondo. Il personaggio, già amato nella mente dei lettori, andava solo rispettato, è un po’ come quando entri in una grande squadra di calcio: c’è aspettativa, ma anche l’incoraggiamento, intorno, di poter avere uno stadio pieno. Ed è lì che vuoi deliziare chi ti guarda, sganciarti dalle etichette, vuoi fare cose meravigliose, anche che non si aspettano, ma devi conoscere la storia di quel club.

Quale tipo di ricerca fai di solito?
Qualunque sia il periodo o il costume su cui sto lavorando, comincio sempre ad ascoltare un certo tipo di musica legata a quell’epoca, a guardare quali autori e quale letteratura si è affermata. Chiedendomi: a cosa pensavano i personaggi? Come ballavano? Qual è la loro cultura? Oppure come si esprimevano? Il mestiere dell’attore è fatto di domande, risposte, riflessioni, non è qualcosa di automatico. Si apprende ogni volta, e in maniera diversa.

Qui interpreti un ruolo che è anche molto fisico, diviso tra il ballo e la boxe.
Simon si colloca nella tradizione di molti famosi archetipi, è un antieroe, misterioso, cupo, minaccioso, distrutto dal suo passato. Attrae, per questo vogliamo scoprire chi è, come fa a riscattarsi, cosa deve fare alla fine per poterlo fare. Danzare, inforcare i guantoni, e montare a cavallo, sono stati tutti linguaggi nuovi, nei quali non ho mai potuto abbassare la guardia, erano funzionali alle caratteristiche di chi portavo in scena, e poi, ogni mattina, ho dovuto aggiungere pure una buona dose di palestra e allenamenti!

Come pugile sembravi molto esperto invece.
Una prima volta, anche lì, anche se da spettatore adoro guardare gli incontri. Semplicemente mi sono preparato al meglio, anche se lo ammetto potrebbe diventare un hobby da coltivare. Il rischio, allora, sarebbe quello di non smettere (ride, ndr).

Quindi l’antieroe affascina di più perché..
Impara dai suoi errori, supera le imperfezioni. La vera forza, oggi, sta semmai nell’accettare le nostre vulnerabilità, a farle emergere, a fidarsi degli altri, nella vita, in amore. Molti uomini sono suscettibili su questi argomenti, mentre dovrebbero provare a guardarsi dentro maggiormente, scoprirebbero tantissime cose.

Proviamo a conoscerti. Dovessi identificare chi sono stati i tuoi maestri, chi diresti?
In realtà penso a tutti quelli con cui ho lavorato, ricevendo sempre un suggerimento prezioso, una lezione, grande, piccola, che sia. Certamente, a teatro, recitando al fianco di Jonathan Pryce coincide come l’aver seguito la migliore master class, senza pagare però il biglietto. Quando sei sul palcoscenico, al fianco di alcuni di questi giganti, puoi osservarli, ammirarli da vicino, dalle prove allo spettacolo, è un privilegio unico, pochi attori riescono ad averlo fin da subito. A me è capitato. Parlo di lui, ma potrei citare un attore come Chad Coleman, sul set di Roots, artisti generosi, capaci di mettere da parte la loro notorietà e regalarti invece la propria esperienza.

Nella tua carriera, una parte è legata alla musica. Insieme a tuo fratello Tose, avete fondato da anni un duo, Tunya, e spesso abbracciate anche progetti trasversali, come nel cortometraggio Don’t Wait, diretto da Lanre Malaolu. Quanto ti piace?
Recitare, cantare e comporre vanno di pari passo. La musica è una boccata d’ossigeno creativo, tiene sana la mente, lì quando compongono non pensano a nulla, a Hollywood. Ed è stato bello far parte di questo progetto. È arrivato in un momento in cui il mondo, durante l’estate, era in tumulto, stava protestando. Come persona, artista, vedi una cosa del genere e non puoi stare fermo, ci si sente inutili. Allora mi sono chiesto: “cosa posso fare per contribuire e valorizzare il mio lavoro?”. Provi a tradurre il personale in qualcosa che possa diventare universale, metafora, messaggio, connessione.

Ne hai scritto un po’. Che reazione hai avuto nel vedere quello quello che è accaduto a George Floyd?
Dolore viscerale, tanta voglia di cambiamento, di crescita. Non è solo l’America, ognuno è stato colpito da quelle immagini, è difficile da spiegare. C’è una storia in quel dramma, che alla fine, dopo un pezzo, un altro pezzo, diventa punto di rottura, su scala globale. Dunque la comunità si è stretta ancor di più, più di quanto eravamo abituati, e questo aiuta ad affrontare, come individuo, essere umano, società, ciò che ci circonda, dell’odio che ci circonda Non possiamo, e non vogliamo, ignorarlo.

Torniamo indietro nel tempo, a quanto stavi in Africa. Cosa sognavi?
Di fare l’esploratore, indagando l’ignoto. Ad Harare, in Zimbabwe avevamo un giardino enorme, spazioso, quando mi sono spostato a Londra mi c’è voluto parecchio per abituarmici, ecco vedi là, circondato com’ero da ragni, animali, più grandi me, sapevo che avrei dovuto cercare una mia strada, ma non così lontana da quella che desideravo. D’altronde essere attore è una forma di esplorazione: entri nella esistente di altri a cui non potresti avere accesso, un giorno sei un presidente, quello dopo un’astronauta, tuffandoti nel passato o nel futuro, puoi vedere le persone, come vivevano e metterti nei loro panni. Direi che il sogno, seppur da un’angolazione diversa, l’ho realizzato.

Per trovare questa identità, quanti sacrifici si fanno?
Identità? La sto ancora cercando, ma penso che in questo percorso non debba mi mancare il divertimento. La strada è lunga, da raccogliere c’è ancora tanto, chissà cosa accadrà, una certezza la so: ogni lavoro intrapreso l’ho vissuto come un viaggio, da guardare sempre con stupore e occhi nuovi. Ed è così che approccio le cose. Attraverso dei linguaggi, dei mondi, vado via, sparisco per un po’, e dopo lo rifaccio di nuovo. La natura, la bellezza, di questo mestiere è di impreziosirlo una volta tornati, sei più ricco di valori, significati, lo apprezzi ancora di più. Quindi non credo di aver trovato ancora nulla, per questo non vedo l’ora di scoprire il prossimo passo.

Bridgerton sarà in onda proprio dal 25 dicembre. Il tuo ricordo di Natale?
Rimanere svegli fino a mezzanotte per assistere alla messa, non volevo aspettare il mattino per aprire i regali, troppa la curiosità. Ci rifiutavamo di andare a letto, quindi, seduti, intorno all’albero, cantavamo felici, alzandoci d’un tratto magari per un girotondo, e stavamo bene. Il Natale, in Africa, era caldo, e noi lo aspettavamo impazienti, pieni di calore.