Tom Hughes: “Il cambiamento è ovunque”

Tom Hughes: “Il cambiamento è ovunque”

Tom Hughes, attore inglese, già protagonista di successo della serie tv “Victoria”, torna nel passato, in una Londra misteriosa e dark. Lo abbiamo intervistato in esclusiva per “A Discovery of Witches – Il manoscritto delle streghe”, in onda dal 16 gennaio su Sky, nel quale si cala nei panni di un altro personaggio reale, il grande poeta inglese, Christopher ‘Kit’ Marlowe.

Courtesy of Sky
di Andrea Giordano

Non chiamatelo outsider, il suo, al contrario, è uno di quei talenti vivi, intelligenti, complessi, ma accessibili a tutti, che dall’Inghilterra, le sue radici, fino ad Hollywood, il luogo che sta per accoglierlo professionalmente, sembra inarrestabile. Tom Hughes, 35 anni, è il volto che non ti aspetti mai però: spia enigmatica in The Game (prodotto dalla BBC), sociopatico in Paula, magnetico in Dancing on the Edge, un viaggiatore del tempo, dagli anni ‘30, ai ‘70, come giovane ribelle (il film era L’ordine naturale dei sogni, scritto-diretto da Ricky Gervais) che provava a trovare a farsi strada. Hughes e i suoi ruoli travagliati, misteriosi, quelli che lo porteranno a confrontarsi in un prossimo horror, Shelter, o nel thriller Infinite, l’ultimo film di Antoine Fuqua, accanto a Mark Wahlberg. Gli stessi ruoli, ma in costume, che lo hanno visto protagonista della serie Victoria, impersonando il Principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, gli stessi che lo portano ora invece nella Londra elisabettiana. La nuova avventura è infatti la seconda stagione di A Discovery of Witches – Il manoscritto delle streghe, serie – evento (in onda dal 16 gennaio su Sky e NOW TV), tratta da la “Trilogia delle Anime”, la saga bestseller Deborah Harkness, un fantasy gotico, con Teresa Palmer e Matthew Goode, nel quale si cala nei panni del demone Christopher ‘Kit’ Marlowe, il poeta e leggendario drammaturgo.

Cosa ti ha attratto del progetto?

In realtà, ad essere onesti, stavo proprio cercando qualcosa che fosse diverso da ciò che avevo fatto prima. L’ aver interpretato una figura, ad esempio, come quella del Principe Alberto di Sassonia, è stata un’esperienza fantastica, durata per tre stagioni, qui il clic, il valore, è arrivato direttamente dalla produzione, perché il progetto già vincente, aveva bisogno di continuità, evasione, nuova fantasia. E lì c’è stata la sfida. Ma soprattutto avevo l’occasione di interpretare un personaggio reale, davvero esistito, e ho trovato una grande attrazione da questo fattore, il contorno che poteva circondarlo, il realismo sociale, alla fine il mix è risultato perfetto, non era possibile farsi sfuggire la palla e ho voluto giocare, dire la mia, come attore.

Scorrendo i ruoli affrontati, anche qui sembra piacerti molto saltare nel passato.

Ci ritrovo modernità. Non è un fatto legato al tempo comunque, o a una particolare epoca, sono sempre le storie a fare la differenza, in particolare se cercando di raccontarti la condizione umana. In questo senso uno dei maestri assoluti è stato Shakespeare, perché di fatto l’argomento non è mai mutato, lo ritroviamo perennemente al centro del dibattito politico, culturale. Credo che ogni esperienza, da spettatore, lettore, interprete, abbia una nella sua essenza una funzione istruttiva, riflessiva, poterne fare parte dunque, diventa come una bussola emotiva. Prendi le misure su ciò che puoi ancora fare ed esplorate di te, e nello stesso momento impari sempre di più.

La lezione più importante?

Che il cambiamento è ovunque, basta saperlo intercettare.

Dieci anni di carriera appena sorpassati, c’avresti mai pensato all’inizio?

Non mi guardo indietro, e forse è la chiave giusta per affrontare le cose che accadono. Quando sto per cominciare un lavoro penso a come poter spingere invece le mie possibilità, andando oltre, ma senza perdere le occasioni, che, lo ripeto, arrivano da strade diverse, cinema, televisione, la cosa divertente è proprio coglierle, e dopo passare alla prossima avventura, magari andando dalla parte opposta. Ma al centro c’è sempre la sfida umana, perché maggiormente andiamo avanti, maturiamo, più guadagniamo in termini di esperienza. Amo la complessità, mantenere viva una certa ebrezza naturale, senza sapere cosa davvero succederà.

Tu, però, nasci musicista.

La musica è stato il mio primo amore, il linguaggio dove trovo sempre equilibrio, armonia, spinta intellettuale. Suonare la chitarra poi è totalizzante, qualcosa di personale, tangibile, quando riesco spendo ore a strimpellare. È dall’età di cinque anni che ne sono circondato, allora sentivo intorno a me musica africana, e magari subito dopo un pezzo di Bob Dylan, che crescendo è diventato un grande riferimento. La musica non è unicamente ritmo, può essere disillusione, espressione, creatività, scoperta.

Parliamo di fonti di ispirazione: c’è un attore a cui tieni in particolare?

Pete Postlethwaite, per me è stato il migliore del mondo, veniva anche lui, più o meno, dalla mia stessa città, Chester, non troppo lontano dal confine col Galles. Basterebbe vedere cosa ha fatto in un film come Nel nome del padre di Jim Sheridan, come padre di Daniel Day-Lewis, ha saputo trasmettere una propria integrità all’interno dei suoi personaggi, antagonisti, antieroi, risolutivi, contestatori, affascinanti, non c’era niente di sbagliato in lui. Ed io volevo provare a sentirmi un giorno così e immergermi in vite differenti.

Da una parte il cinema, dall’altra c’è la tua passione per lo sport e una squadra in particolare…

Il Manchester United. Da piccolo ero un ammiratore in particolare di Sir. Alex Ferguson che per questa squadra è stato più che un allenatore, perché ha saputo condurre a mete incredibili, trasmettendo magia, diventando lui stesso una leggenda vivente. Un giorno, a 12 anni, ricordo mi trovavo a Liverpool, ci sarebbe stata una partita, sapevo che in un albergo c’erano tutti i giocatori e ovviamente lui. Convinsi mio padre ad accompagnarmi, lo feci chiamare dalla reception, volevo assolutamente un autografo. Puoi non crederci, alla fine venne giù, parlammo brevemente, fu incredibile. Il giorno dopo, all’uscita dell’albergo, si ricordò e mi salutò. Ferguson e Postlethwaite sono in fondo simili, nell’essere stati d’esempio per tante generazioni.

Com’eri da ragazzo?

In cerca di indipendenza. Non un grande lettore, cosa che invece poi ho sviluppato crescendo, ma avevo la chitarra, mi ripeto, la consideravo quasi una creatura sociale, non la lasciavo solo neanche un minuto, era come una via di fuga. Invecchiando (ride, ndr) ho cominciato a crearmi il mio di giardino, attingendo da compositori come John Barnett, realizzando quanto la mia personalità potesse davvero tradursi in uno strumento di lavoro.

A breve ti vedremo in un nuovo lavoro, The Laureate, dove interpreterai lo scrittore Robert Graves.

Una bella emozione e una sfida a cui non volevo rinunciare per nessuna ragione. Lui è stata una figura straordinaria, capace di sopravvivere alla Prima Guerra Mondiale, alla Grande Depressione, imponendosi tra le firme più importanti della letteratura inglese, ma non solo. Graves come Spike Milligan, John Lennon, parliamo di artisti immortali, in grado di superare le restrizioni del tempo, e far letteralmente vibrare, nel suo caso, le parole attraverso la poesia, la ricerca. Ogni volta, ogni giorno, che penso al suo lavoro me ne innamoro: aveva voglia di cambiare le cose.

Una curiosità finale: qualche anno fa eri entrato in un progetto (poi cancellato, ndr) dove saresti stato Corto Maltese. Lo conoscevi?

Inizialmente no, in Gran Bretagna non era così noto, ma quando è arrivata la sceneggiatura ho fatto di tutto per recuperare, cercandolo nei negozi, e mi sono reso conto di quanto fosse interessante da raccontare. Sarebbe stato incredibile, avremmo girato tra l’Italia, la Francia, il Portogallo, spero che prima o poi quel progetto possa riemergere. Corto Maltese è spavaldo, impavido, ha un fascino naturale, e questo lo si deve in primis ad Hugo Pratt.