L’arte del deinfluencing. Quando l’onestà vince sui social ma non nella moda
Foto di Christian Vierig/Getty Images

L’arte del deinfluencing. Quando l’onestà vince sui social ma non nella moda

di Giulio Solfrizzi

Cos’è il deinfluencing? Meno menzogne da adv campaign e più consigli genuini. Mentre la moda incomincia a fare a meno degli influencer

L’onestà oggi sembra virtù di pochi, e probabilmente è così da sempre. Gli utenti, che sono anche persone, ne stanno risentendo rifugiandosi in genuinità e cose semplici ben lontane dall’irraggiungibile lusso sfrenato. In questo clima di crisi e cambiamento, i social network che hanno monopolizzato le nostre giornate fungono da amplificatori della disonestà. Specialmente a causa di alcuni content creator, fedeli ai propri sponsor ma terrorizzati dalla possibilità di perdere quelli futuri. Perché è il loro lavoro, che piaccia o meno, e devono garantirsi una sicurezza economica. Ma ciò non implica che sia giusto mentire ai propri amatori, scendere a compromessi o svendersi per un pagamento in più.

295787

L’autenticità di TikTok

È anche vero che il mondo dei social sia cambiato dall’avvento di TikTok, versione contemporanea dell’allora famoso Musically affermatosi agli esordi della pandemia. Da sempre ritenuto banale e svilente a causa di balletti e lip-sync, è riuscito a mettere in crisi Instagram attraendo grandi brand, specialmente dell’alta moda. Qual è la chiave del suo successo? La possibilità di interfacciassi con gente comune, che si espone tra consigli, spacchettamenti, racconti e prove outfit. E la possibilità della gente stessa di poter diventare famosa a breve termine. 

L’onestà tanto ricercata dalle nuove generazioni, influenzate positivamente dalla struttura del social di origini asiatiche, è la costante. E le grandi case di moda, sempre alla ricerca di metodologie per raggiungere il grande pubblico e far discutere di sé, sono subito migrate verso la piattaforma dei musicarelli. Prima mantenendo la comunicazione a cui erano abituati, incongruente con la necessità di contenuti veritieri ed immediati, poi comprendendone le sfaccettature. Difatti Prada e Dior, solo per citarne alcuni, hanno rivisitato un format tanto vecchio quanto amato dal web: l’unboxing, proveniente da YouTube. In questo modo, come in tanti altri, i contenuti retribuiti sembrano più autentici e sentiti

295789

Cos’è il deinfluencing

Messa da parte l’epopea della novella era dei social network, anch’essi vittime del tempo che passa e del volere della gente, bisogna parlare dell’ulteriore rinnovamento affrontato dall’ex Musically. La rivoluzione social che riecheggia quelle un tempo svolte per strada, spinta dall’impellente bisogno di verità, si insinua silenziosamente tra le adv campaign della moda. Ed è stata la causa di questa ribellione sottesa ad aver reso virale il “deinfluencing”. Altro non è che tutto il contrario dell’influencing, perciò della sponsorizzazione e raccomandazione di prodotti di ogni tipo: dall’ultima scarpa trendy allo shampoo più rimpolpante per il capello, fino ai trattamenti dimagranti. In questo modo non si consiglia, bensì si sconsiglia qualcosa che non ha funzionato o non è stata come si credeva.

La paura di inimicarsi marchi e team marketing scompare, lasciando spazio al lato più umano di ciascuno di noi. Come se si parlasse con un amico o parente, privi di costrizioni e vincoli contrattuali. Demolendo la differenziazione sviluppata negli ultimi dieci anni e restituendo la fiducia perduta dai propri followers.

Gli effetti del deinfluencing nella moda

Un cambiamento prevedibile, partito soprattutto dal mondo beauty al femminile per poi passare a quello maschile. Sieri, detergenti e creme ora sono i promotori dell’umanità, sebbene siano i primi nemici di noi stessi promuovendo falsità e menzogne promettenti. E la moda questo deinfluencing l’ha preso alla lettera ormai da tempo, abbandonando con le dovute accortezze – e tempistiche – i fashion blogger e corteggiando attori hollywoodiani o cantanti internazionali. Si ritorna nostalgicamente alle origini della pubblicità, quando erano i divi e le dive a dettare tendenza. E la progressiva perdita di rilevanza da parte di certi content creator, prima chiacchieratissimi, ne è la conferma.

Decisione ugualmente dubbiosa quella di rifarsi al modus operandi dell’era pre-Internet, perché si parla pur sempre di influencing, paradossalmente meno trasparente di quello odierno.

295790

Ma le maison che fatturano milioni, se non miliardi, necessitano di canali alternativi alla televisione o ai cartelloni nelle metropoli di tutto il mondo, specialmente se quelli più recenti si stanno depotenziando. Canali migliori degli influencer stessi, già messi in pratica durante le fashion week che hanno animato New York, Milano e Parigi: dalle band K-pop accolte da Prada ad Ornella Vanoni per Giorgio Armani e ai Måneskin voluti da Gucci in prima fila, i video e le foto più virali sono state proprio le loro. Non solo selezionati come ospiti alle sfilate, pure come brand ambassador alla Abel Ferrara per Saint Laurent e Linda Evangelista per Fendi.

La crisi del fenomeno influencing non avverrà nell’immediato e probabilmente neanche nel futuro prossimo. Però è certa, grazie agli esiti del trend dell’anti-influenza, la natura democratica dei social e la morbosa attenzione dei marchi modaioli al volere degli acquirenti, anche a quelli che non lo saranno mai. Specialmente nel ventunesimo secolo, erede della cultura dell’immagine e attuale proprietario del bisogno di far discutere di sé stessi, oltre che di farsi desiderare da chiunque. E se il popolo un giorno non vorrà più seguire i fashion blogger, allora scompariranno da front row, red carpet e premier.