Intervista a Ruth Weiss, ultima poetessa della Beat Generation
Image courtesy of "ruth weiss, the beat goddess"

Intervista a Ruth Weiss, ultima poetessa della Beat Generation

di Alessandra Mattanza

Ruth Weiss, artista amica di Jack Kerouac, ci racconta in un’intervista esclusiva il mito della Beat Generation di San Francisco. L’occasione è quella dell’uscita del documentario “Ruth weiss, the beat Godness”, che ripercorre la sua vita.

A volte, quando tutto sembra essere perduto, la poesia può salvare il mondo, riempiendo l’anima di speranza, sogno, evocazioni di un futuro felice che, seppur lontano, può sembrare accessibile al pensiero.  “Per favore rispettate il silenzio (…) Potrebbe essere uno spazio raro, per esplorare il vostro mondo.” evoca la voce di Ruth Weiss, 91 anni, poetessa Beat. Preferisce farsi definire ruth weiss, senza lettere maiuscole, contro le regole della parola scritta… Ed è il simbolo ancora vivente di quel che resta della Beat Generation, della San Francisco iconica.

I suoi capelli sono verde-azzurro, un colore molto particolare, che ha creato lei stessa. Riprende sia quello dei suoi stupendi occhi, che delle sue unghie, come quello di certe pietre che a volte indossa in una corona a collana che porta sulla testa. Nel suo esotismo magico di creatura libera e selvaggia, ricorda una ninfa dei boschi, una strega, un fantasma che esce dal passato solo apparentemente remoto della Beat Generation che continua a sopravvivere nella libreria City Lights Bookstore, di Lawrence Ferlinghetti. Quest’ultimo ha 101 anni, ma, tavolta, si fa ancora vedere… A sorpresa.

Ruth vive in una casetta nei boschi di altissimi alberi di sequoie a Albion, a circa una trentina di minuti da Mendocino, località sulla spettacolare costa del Pacifico, tre ore a nord di San Francisco, dove viene però ancora per esibirsi in alcune serate jam di jazz e poesia. ruth weiss è stata colei che ha innovato, almeno nella costa ovest degli Stati Uniti, l’arte di recitare rime, facendole inseguire da musicisti che improvvisano note jazz. A vederla sul palco, con le sue parole che danzano ai suoni del sassofono e del ritmo del tamburo di musicisti, è un’esperienza incredibile. “Ruth è una grande poetessa, ma allo stesso modo lavorare con lei è come entrare in un’esperienza psichica, seguire un’onda chiaroveggente… E’ come se lei avesse questa particolare dote di condurti in un’altra dimensione“ rivela uno dei musicisti.

Ruth, nata a Berlino e cresciuta a Vienna, ebrea sfuggita da bambina in America dalla persecuzione nazista, a volte miscela vocaboli tedeschi a inglesi, rapita dal ritmo del suono. Incontrare Ruth per la prima volta, lascia un segno indelebile. Soprattutto se è a San Jose, nel cuore della Silicon Valley, in piena emergenza pandemia, durante il Cinequest (interrotto il giorno dopo il nostro incontro e posticipato, proprio a causa del Corona Virus, dal 16 al 30 agosto 2020), il festival del cinema e della creatività, che mira a sposare il passato con il presente, la nuova San Francisco con la San Francisco iconica, a usare la tecnologia per ispirare e trasformare esistenze. Ruth non sembra troppo spaventata dallo stress di contrarre il virus. Con quella saggezza tipica della generazione Beat guarda al pericolo come qualcosa che prima o poi passerà, con una certa irrimediabile fatalità, che pare renderla invincibile, intoccabile, una dea senza paura che non teme nulla.

Ruth sa farsi amare dalla giovane generazione, come dimostra con la poetessa contemporanea Kimy Marinez che ha creato perfino una bambola-marionetta dedicata a lei e specialmente con la straordinaria simbiosi che ha instaurato con la giovane regista Melody C. Miller, per il documentario ruth weiss, the beat Godness. Ruth, proprio per questo, è stata premiata a marzo 2020 col Maverick Spirit Award.

In questo poetico e creativo documentario, con una stupenda fotografia e paesaggi bellissimi, si racconta la storia di Ruth. Si comincia a conoscerla nella sua casa attuale, con lei, circondata da ricordi e memorie del passato, pile di scartoffie e di libri, memorabilia vintage e ricordi, con lei, sempre pronta a scrivere con la sua macchina da scrivere, un bicchiere di vino rosso e una sigaretta alla mano. Si narra di quando, da bambina ebrea, scappò al nazismo e a Hitler, con magnifiche illustrazioni animate dell’artista Ketzi Rivera. Si descrive la sua infanzia libera negli anni dell’ascesa del nazismo, tra fughe spericolate di città in città per la salvezza, da Berlino a Vienna, all’Olanda, dove con i genitori riuscì a imbarcarsi su una nave per New York. “Quando arrivai a New York, scrissi una poesia e la mandai a Roosevelt. Mi rispose, ma non l’ho tenuta, perché non pensavo che avrei avuto bisogno di un archivio.” riflette Ruth.

La sua storia prosegue facendo correre la memoria ai primi anni a Chicago, dove si distinse da subito per il suo talento artistico e per la matematica, e poi andò a studiare, in Svizzera, dove sviluppò la passione per la scrittura, per la natura, per l’autostop che le servirà molto durante il periodo bohémien beat. Nel 1948 tornò con i genitori a Chicago, dove cominciò a frequentare l’Art Circle, una comunità che ospitava artisti, e a sperimentare con poesia e musica. Trascorse un periodo a New Orleans, ma per un motivo fu attratta da San Francisco: “Avevo sentito che c’era la nebbia e questo mi affascinava tantissimo… Venni qui per esservi immersa…” E, a San Francisco, c’era la cultura Beat.

Ruth divenne cara amica di Jack Kerouac, che incontrò nel 1952. Pare non ci fu mai del sesso tra loro, piuttosto una fantastica connessione a diversi livelli. “Passavamo le notti a parlare bevendo vino. E a scrivere su fogli di carta che non ho mai conservato. Fino a che Jack collassava al suolo ubriaco ed era allora che arrivava Neal Cassady. Veniva a prenderlo o, alcune volte, andavamo tutti e tre in macchina sulle colline di San Francisco a vedere l’alba. Neal aveva quell’abitudine di prendere una macchina e usarla fino a che non finiva la benzina, facevamo viaggi sulla strada. Poi, prendeva un’altra macchina a prestito… Lui e Jack erano molto amici, al punto che una volta divisero addirittura una donna…” rammenta Ruth, sorridendo.

Ruth, invece, sposò prima Mel Weitsman, di cui adesso non ci tiene a parlare e che poi divenne un monaco Zen, e successivamente il suo grande amore, con cui trascorse 40 anni, il pittore gay Paul Blake, che si innamorò di lei. E, Ruth scrisse poesie ispirate ai dipinti di lui. “Quando meno me l’aspettavo mi sono trovata ancora a essere coinvolta in una relazione romantica…” aggiunge. Negli ultimi due anni ha frequentato il musicista Hal Davis, di diversi anni più giovane di lei, che compare pure nel documentario in momenti commoventi e toccanti. La poesia si mescola a diverse forme d’arte: alla musica, all’animazione e alla pittura, al ballo, con tre ballerine, una bambina e due giovani donne (Isabel Tsui, Ida Nowakoska e Brennan Wall) che si muovono al ritmo delle poesie di Ruth, in piena improvvisazione Beat, nella foresta Redwood Forest, nel deserto Mojave Desert, in una strada di North Beach nei pressi del Vesuvio Cafe, sulla spiaggia di Baker Beach a San Francisco.

Ma il documentario racconta anche la storia di un movimento che è stato anticipatore dei tempi, che già allora professava equità e parità di diritti, tra uomini e donne, gay e lesbiche, tra tutte le razze e culture, che si batteva contro la guerra per la pace e l’amore, che lottava fin da allora contro il cambiamento climatico. “Furono le balene le prime a farci rendere conto di dove il nostro pianeta stava andando… Quando finivano sulle spiagge senza orientamento… E, noi ci battemmo contro coloro, le grandi compagnie, che volevano distruggere e sfruttare la natura con tutte le nostre forze… ” proclama Ruth.

Nel suo percorso si scopre come a quel tempo ebbe il coraggio di distinguersi, a scapito perfino del pericolo. Si dipinse i capelli di quel verde-azzurro che porta ancora oggi, andando controcorrente, in una società dove gli uomini erano considerati dei ribelli, ma le donne che si univano a loro venivano riportate a casa dai genitori e sottoposte addirittura a elettroshock per essere rese “mansuete”. “Come donna non riuscì per lungo tempo a trovare un editore. Dovevo lavorare come cameriera per mantenermi. Avevo le mie serate di jazz e poesia solo il mercoledì sera. “ confessa, ancora con un certo rammarico. Questa è l’unica cosa che non rimpiange di quei bei tempi passati.

“Sono cresciuta a San Francisco, che per me è sempre stata la città della creatività e dell’innovazione” afferma la giovane regista Melody C. Miller, parlando della nuova San Francisco. E, racconta: “Con Ruth ho ripercorso alcuni dei posti più iconici del passato a North Beach. Abbiamo cominciato a camminare insieme dal Beat Museum, sulla via Broadway, che è dedicato a preservare la memoria della Beat Generation. Abbiamo percorso Columbus Avenue e Grant Avenue, ci siamo fermate al Caffe Trieste, fondato nel 1956, con ottimo caffè e musica. Abbiamo incontrato molte persone che ci vedevano filmare per la strada e avevano qualche memoria da aggiungere alla storia. Ho chiesto a Ruth di portarmi dove tutto per lei è cominciato e da Grant Avenue siamo arrivate a Green Street, fermandoci in caffè, bar, gallerie d’arte, ristoranti. Era come passare per ere differenti, dove passato e presente si sfioravano. Ci siamo imbattute in un sassofonista berlinese che ha riconosciuto Ruth ed è sceso dalla sua macchina per salutarla, nel mezzo del traffico, con altre automobili dietro di lui che suonavano rumorosamente il clacson… Poi, come per miracolo, qualcuno degli altri autisti l’ha anche riconosciuta e si è unito alla nostra conversazione… Tutta gente del quartiere. Dopo un paio di isolati, ascoltando altri aneddoti di gente di quartiere, siamo arrivati all’edificio dove si trovava il locale Cellar, a Green Street, che ora non esiste più. Era dove si incontravano spesso i Beat e Ruth teneva le sue sessioni jam. Alla fine siamo finite in un bar con musica dal vivo, dove lei e il suo compagno Hal hanno ballato all’ombra, di una luce rossa, fino a tarda sera”. “North Beach non è magari il quartiere più bello di San Francisco, ma rimane di certo ancora quello più avventuroso” le fa eco Ruth, con un sorriso sornione.

“Ho conosciuto per la prima volta Ruth diversi anni fa, proprio a North Beach, quando ho partecipato all’iniziativa Invita un poeta a pranzo a The Beat Museum. Scelsi lei, perché era una donna ed ero da tempo una grande ammiratrice della sua poesia. Allora Ruth stava ancora insieme a Paul, lui era bipolare ed era finito a essere homeless, lei era stata male per un lungo periodo, ma è sempre stata una donna molto forte” spiega Elisabeth P. Montgomery, la produttrice del progetto, che vive a Emeryville vicino a Berkeley, e si divide tra qui e la Cina, dove è da vent’anni consulente per l’internazionalizzazione dell’educazione e delle scuole nel distretto di Nashan, a Shenzhen.

“Fate sempre quello che volete VERAMENTE. Non ascoltate nessun altro: nemmeno i vostri genitori o i migliori amici. Fate quello che sentite. E se la poesia vi tocca l’anima, agite buttandovi. Io stessa ho sempre vissuto la poesia. E’ al primo posto. Tutto quello che succede attorno ad essa è parte di una struttura. Ma il cuore di tutto è quello che chiamo “la poesia”. E tutti abbiamo “la poesia dentro di noi” non si stanca di predicare Ruth.

“Ho scritto poesie per tutta la vita, anche da bambina. Sapevo che sarei divenuta una poetessa da allora” aggiunge poi. “Visualizzo nella mia mente una persona, un luogo, qualcosa… Mi basta solo questo per evocare parole che si mescolano insieme, non mi piacciono le lunghe descrizioni, il soggetto si deve presentare nella sua essenza in modo profondo” crede. “Ho scritto la mia prima poesia a cinque anni. Si trattava di un orso che girava e girava, che voleva essere di ogni età… Qualcuno mi disse che è stato lui il primo Beat” conclude, con lo sguardo che guarda l’infinito.