The art of Graffiti

The art of Graffiti

di Vanni Santoni

In principio furono le scritte sui muri. Solo dopo arrivarono le figure, e la chiamarono street art. Oggi però ci sono artisti che non si sono piegati al nuovo corso: continuano a lavorare solo sulle lettere e vogliono essere chiamati writer

Era il 1967 quando un ragazzo di Philadelphia scrisse su un muro – per amore, si dice – “Cornbread”, il nickname che si era scelto. Ben presto ci prese gusto e cominciò a firmare tutti i muri di Philly. Nessuno sa se Julio 204, il primo a fare lo stesso a New York, avesse visto quelle scritte o avesse sviluppato l’idea per proprio conto; di certo, Taki 183, un ragazzino di origini greche che lavorava come corriere, e per questo girava tutta la città, lo imitò e diffuse la pratica nell’intera NYC. Taki 183 fu il primo “All city king”; in molti lo emularono, e poco dopo, nel nugolo di Joe 136, Eva 62, Eel 159, Yank 135, e via così, non bastava più scrivere il proprio nome, e nemmeno farlo ovunque. Occorreva scriverlo più grande, in posti più visibili e soprattutto meglio. Così, dalle semplici tag nacque lo style writing, una nuova arte calligrafica, con l’emersione di talentuosi “sultani dello stile” come Phase 2, Tracy 168, Dondi, Blade, Kase 2, Crash, Daze, Lady Pink, Futura, Rammelzee… le innovazioni non smettevano di avvicendarsi: bubble letters (caratteri a mo’ di balloon), 3D letters, cloud (la “nuvola” dietro alla scritta), wild style (lettere distorte e concatenate), puppets (i personaggi che affiancano il lettering)… 


Nel giro di pochi anni, i treni e i muri di New York si riempirono di scritte via via più mirabolanti e quasi sempre incomprensibili da chi non ne conosceva i codici, ma sempre sviluppate a partire dal concetto di firma. Tra i primi in Europa a capire che nel Bronx si stava sviluppando qualcosa di decisivo per la storia dell’arte ci fu la curatrice bolognese Francesca Alinovi, che non si limitò ad andare a cercare i grandi writer – varrà la pena dire che il termine “graffiti” fu affibbiato dal New York Times, ma loro parlarono sempre di sé come writer, scrittori – ma li portò con sé in Italia, dando vita, nel 1984, ad Arte di frontiera, la prima mostra pubblica in Europa dedicata al movimento.

Le cose, però, stavano già cambiando, e Alinovi se n’era accorta, perché in quel fertile humus aveva notato altri giovani artisti che ne avevano mutuato le pratiche, ma già guardavano al figurativismo – e all’ingresso in galleria – due nomi per tutti, e noti a tutti, Keith Haring e Jean-Michel Basquiat. Già nei primi anni 80, mentre in Italia si cominciava a raccogliere l’eredità dei pionieri “importati” da Alinovi, dal writing andava staccandosi ciò che fu definito inizialmente post-graffiti, e che sarebbe divenuto il più vasto movimento artistico di ogni tempo, con il nome di street art. La più facile leggibilità della street art contribuì al suo successo mainstream, ma a distanza di 40 anni, il writing, diffusosi in modo capillare in tutto il mondo, e in particolare nei Paesi che, come il nostro, hanno migliaia di chilometri di reti ferroviarie locali (16.500 quelle italiane), non ha smesso di prosperare sottotraccia, nel segno di una continua ricerca grafica sul lettering, da distorcere e riunire ancora una volta, in cerca di una risposta personale alla “guerra dei segni” che si combatte sui muri, sui treni e ovunque esista un testo scritto, come spiegava Rammelzee, il più teoreta dei writer, a una stranita Alinovi nel 1983.


Di fronte a una street art che si fa arte pubblica, col paradosso di città che con una mano finanziano organizzazioni di “cancellatori” e con l’altra pagano gli street artist alla moda per fare grandi muri riqualificanti, c’è chi non si è piegato al nuovo corso e ha continuato, con ossessione da amanuense, a lavorare sulle lettere. Puristi del lettering, anche italiani, come Blef, Wubik, Secse, Orghone, solo per citare quattro tra i più talentuosi e freschi “re” dello style writing nostrano, artisti – o meglio, e di nuovo, writer, perché la mentalità è ancora quella di chi partiva di notte con lo zaino pieno di “bombole” – che, formatisi in strada, non hanno mai smesso di lavorare sui caratteri, sempre alla ricerca di nuove forme.


Su muri e treni, dato che il treno, come spiega Blef, «è il campo in cui il movimento trovò il suo sviluppo formale», e quindi «ancora l’ambito chiave con cui devono misurarsi i suoi appartenenti» (senza tradire i dettami originali, senza cedere a figurativismo e grafica: «un tempo», racconta Wubik, «sarebbe stato impensabile usare le mascherine, come fanno molti oggi per ottenere lettering più tipografici»), e spesso ritrovandosi oggetto di repressioni sproporzionate: Secse ricorda quando nel 2009, dopo una campagna stampa in nome del decoro, i writer divennero i primi nemici pubblici, e molti si trovarono la polizia in casa, come terroristi o narcos. Perseguitati, quasi sempre fraintesi, a volte («anzi, spesso», ride Orghone) in competizione, quando non in lotta, tra loro, ma sempre fedeli alla loro ossessione, un’ossessione in cui il talento è indispensabile, ma – come asseriva profetico Rammelzee – in un campo ristretto come l’alfabeto, può raggiungere i propri obiettivi solo se opportunamente temperato dalla disciplina.