Jimi Hendrix, 50 anni senza il suo mito
Foto: David Redfern/Redferns

Jimi Hendrix, 50 anni senza il suo mito

di Andrea Giordano

Il 18 settembre 1970 Jimi Hendrix, una delle leggende del rock, il chitarrista per eccellenza e più all’avanguardia, moriva a soli 27 anni. A cinquant’anni esatti dalla scomparsa, la sua magia continua a illuminare le generazioni di oggi.

Il virtuoso della chitarra (suonata pure con la lingua), il mito divenuto leggenda oltre il suo tempo e spazio geografico. A cinquant’anni esatti dalla scomparsa – era il 18 settembre 1970 – la musica di Jimi Hendrix non smette di far vibrare i suoi fan, che in lui hanno visto un simbolo rivoluzionario e anticonformista della controcultura americana. Basterebbe rivedersi uno dei documentari cult dell’epoca come il vincitore dell’Oscar Woodstock – Tre giorni di pace, amore e musica, diretto da Michael Wadleigh, con (udite udite) Martin Scorsese e la collaboratrice di sempre Thelma Schoonmaker. Lì, nel gran finale, seguendo Janis Jopin, altra icona assoluta (il 4 ottobre saranno anche per lei 50 anni), arrivò proprio lui a chiudere, intonando Voodoo Child (Slight Return) e Purple Haze, regalando l’improvvisazione acustica dell’inno americano, The Star-Spangled Banner, entrato di diritto nelle capsule immortali e visive di sempre. Quei minuti basterebbero probabilmente per decifrare il personaggio, calamita attrattiva per orde di fan, la grande star del rock che seppe dettare nuove regole, alzando l’asticella ad ogni performance.

La morte, ufficialmente avvenuta per un mix di anfetamine, alcol e barbiturici (nove pastiglie di Vesparax), rimane comunque piena di contraddizioni e sospetti, quasi fosse l’inizio di un giallo in stile Agatha Christie: coincidenze, inesattezze, l’atteggiamento degli infermieri (superficiali? razzisti?) che lo trovarono morto, semplice destino maledetto riservato al club 27, quello d Brian Jones, Morrison e Joplin, che di lì a poco finiranno le loro esistenze, come del resto Kurt Cobain e Amy Winehouse in epoche recenti. Ma quello che avvenne al Samarkand Hotel di Londra, al 22 di Lansdowne Crescent, nell’appartamento condiviso con la compagna di allora (l’ultima a vederlo) Monika Dannemann, di fatto rimane aperto alle interpretazioni, non solo legate al cocktail fatale. Hendrix, amato da molti, fu comunque sgradito ad altri, soprattutto per il finanziamento alle Black Panthers. Fu sempre accusato di combattere o schierasi eccessivamente, tanto da essere controllato dall’FBI, capeggiato da J. Edgar Hoover. Teorie folli e (sur)reali? Forse entrambe.

A rimanere indiscussa, però, è ancora la sua aura eterna, in grado di spingersi perennemente al limite. Fu così fin dagli inizi e dalla formazione della Jimi Hendrix Experience, nel 1966, composta da Noel Redding (al basso) e Mitch Mitchell (alla batteria), gruppo leader nel dare aria nuova e visioni sul futuro, senza precedenti, ecco la parola chiave. Ed è così che escono singoli come Hey Joe, The Wind Cries Baby, il già citato Purple Haze, colonne sonore accecanti, magnetiche, in termini di impatto. Furono apripista nell’alternarsi a sconfinamenti, citando nei concerti il blues di Howlin’ Wolf o B.B. King. In un periodo dove Beatles e Rolling Stones monopolizzarono la scena internazionale, il cantore di Seattle, entrava furioso in hit parade. Il resto è scritto nei libri di storia. Arriva la consacrazione live, selvaggia, nel 1967 al Monterrey International Pop Festival, raccomandato dallo stesso Paul McCartney, mandando su di giri la sua Fender Stratocaster, per poi, alla fine, bruciarla.

La flower power e il suo stile che mischia hippie, afro e ornamenti indiani provoca e manda in tilt il sistema: c’è il secondo album, Axis: Bold as Love (con canzoni come Little Wing o Up From The Sky), dopo il successo di Are You Experienced? (tra i brani anche Foxy Lady), ecco il terzo, Electric Ladyland, la fine del gruppo, l’inizio di un altro, i Gipsy Sun And Rainbows (tramutatisi in Band of Gypsys), Woodstock, le tournée monstre (il Cry of Love Tour), le jam-session massacranti, gli altri progetti (gli Electric Lady Studios), il business ingombrante. Genio e sregolatezza, così nelle cover, provate a risentirvi All Along The Watchtower di Bob Dylan. Alla fine saranno cinque album (e 25 postumi).

Anima soul, radici black, puro tecnicismo, e inventiva, via, lontano, da possibili etichette, via da una qualsiasi classificazione. Ed è da questa radicale esperienza che molti, oggi, dovrebbero ripartire.