Keith Haring: l’arte è vita, la vita è arte

Keith Haring: l’arte è vita, la vita è arte

di Giuditta Avellina

Un pittore, un writer, un contemporaneo genio che ha reso pop art e graffiti una vera e propria forma di evoluzione e rivoluzione culturale: Keith Haring

Il 4 maggio 1958 a Reading in Pennsylvania nasceva uno dei più grandi artisti americani di tutti i tempi: Keith Haring. Un pittore, un writer, un contemporaneo genio che ha reso pop art e graffiti una vera e propria forma di evoluzione e rivoluzione culturale, ampliando il potenziale del linguaggio visuale e i significati ad esso connessi o connettibili. E aggiungendovi cani e omini (o come amava chiamarli lui: radiant babies e barkings dogs, mostri e colori accattivanti. Eppure, dietro sagome apparentemente semplici, ha celato messaggi potenti sull’amore, la discriminazione, la politica, la droga, il riarmo nucleare, il capitalismo.

Essere fruibile a tutti

Con un obiettivo principale: essere fruibile da tutti, arrivare a quanta più gente possibile e senza regole imposte dall’alto su ogni tipo di vetrina urbana. Sin da bambino, il piccolo Keith – primogenito di quattro figli – rivela un’innata passione per il disegno. E, grazie al supporto di papà Allen e alle ispirazioni dei personaggi del mondo Disney, inizia così il suo percorso artistico. La sua è una gioventù bruciata, passata tra arte ma anche abuso di alcool e droghe. Eppure questo non gli impedisce di evolversi nel mondo dell’arte. Infiammato dal genio di Andy Warhol, Keith Haring tenta prima la carriera universitaria in ambito grafico pubblicitario, salvo poi abbandonare la Ivy School of Professional Art di Pittsburgh, per dedicarsi solo alle sue opere, sostentato da lavoretti di vario tipo e dalle edificanti letture di monografici su Jean Dubuffet, Stuart Davis, Jackson Pollock, Paul Klee, Alfonso Ossorio e Mark Tobey.


Gli incontri cruciali e un grande obiettivo

Intanto Keith Haring incontra personaggi che sarebbero stati essenziali nella sua crescita artistica: nel 1977 Pierre Alechinsky che proprio in quell’anno espone al museo d’arte di Pittsburgh, farà la sua prima personale e, due anni dopo, il rendez vous con quello che diventerà uno dei suoi più grandi amici: l’artista di Brooklyn, allora emergente, Jean-Michel Basquiat. Pittsburgh però gli sta sempre più stretta e così si trasferisce nella Grande Mela dove, oltre a poter vivere più liberamente la sua sessualità, frequenta i corsi della School of Visual Art (non completerà però gli studi, ma gli verrà comunque conferita una laurea ad honorem post mortem nel 2000) apprendendo gli essenziali di disegno, pittura e scultura e frequentando luoghi inspiring. Uno su tutti il Club 57, vero punto di ritrovo per artisti e musicisti newyorkesi. La sua vocazione artistica si spinge alle forme di espressione più urbane e meno tradizionali ed è così che il graffitismo diventa la sua strada maestra. Eppure, per quanto testimone dell’hic et nunc in realtà in Haring sono presenti anche ispirazioni d’altra natura, che attingono a piene mani tanto all’archeologia classica e alle arti precolombiane quanto a maestri del Novecento, da Pollock a Dubuffett o Klee. Ma per quanto con il tempo il suo approvvigionamento di fonti si faccia sempre più caleidoscopico nei colori come nelle tematiche –  espressione di una controcultura impegnata su tematiche clou – in realtà Haring mira alla costituzione di un intreccio, di un linguaggio immaginario e simbolico unico. Una sorta di pangea, che fosse terreno fertile per una forma d’arte universale e universalmente compresa.


Ogni luogo urbano, un palcoscenico

Intanto la sua popolarità cresce a dismisura e la sua fama a crescita esponenziale gli permette negli anni Ottanta di partecipare al Times Square Show e alla prima mostra artistica dedicata all’arte underground statunitense, dove stringe amicizia con alcuni dei maestri della street art mondiale: Lee Quinones, Fab Five Freddy e Futura 2000. Dalle mostre ai club e sino alle metro, il passo è breve: mostre, installazioni, interventi su spazi pubblicitari vuoti. Ogni luogo pubblico diventa potenziale approdo della sua arte colorata, convulsa, istrionica. E questo enorme laboratorio a cielo aperto foraggia il suo talento, la sua pervasività e mostre sempre più di livello, come quella del 1982 in collaborazione con il gallerista Tony Shafrazi e cui presenziano artisti del calbro di  Roy Lichtenstein o Sol Lewitt.


Il testamento (in Italia) di Keith Haring

Intanto la sua popolarità varca i confini statunitensi, inondando gallerie e musei di tutta Europa, ma anche spazi privati di sempre più numerosi committenti. Il suo estro non gli impedisce di «camminare sulla linea molto sottile che divide la vita dalla morte» per via della «promiscuità presente in ogni angolo di New York». Così contrae l’AIDS che, a causa di alcune complicanze, lo strappa alla vita il 16 febbraio 1990, a soli 31 anni. La sua ultima opera e testamento della sua breve ma intensa e magistralmente prolifica vita, è creata in Italia: Tuttomondo – sulla parete esterna del convento di Sant’Antonio a Pisa – con 30 figure incastrate tra loro a simboleggiare la pace e l’armonia del mondo. Haring approda a Pisa dopo che pare abbia incontrato a New York un giovane studente pisano, Piergiorgio Castellani che lo invita a un soggiorno toscano. «Il tempo era bellissimo e il cibo ancora meglio. Ho impiegato quattro giorni per dipingere. Sto in un albergo direttamente di fronte al muro, così lo vedo prima di addormentarmi e quando mi sveglio. C’è sempre qualcuno che lo guarda (l’altra notte anche alle 4 del mattino). È davvero interessante vedere le reazioni della gente» raccontò l’artista nei suoi diari.

L’opera misura circa 180 metri quadri e si tratta dell‘ultimo inno alla vita di Haring, e di uno dei «progetti più importanti che abbia mai fatto»: l’artista, insieme ad alcuni studenti e artigiani dell’azienda di vernici Caparol Center di Vicopisano – che donano la vernice necessaria alla realizzazione dell’opera – lo dipinge in soli quattro giorni. A documentare il lavoro congiunto restano due: L’Arte in diretta, un videoclip di 5 minuti, e Tuttomondo, un’intervista documentario di 27 minuti, girati dal regista Andrea Soldani. Oltre alla memoria tangibile del suo genio, resta la Keith Haring Foundation che fonda con l’obiettivo di continuare la sua opera di sostegno alle organizzazioni a favore dei bambini e della lotta contro l’AIDS.  Quasi a voler continuare quel suo senso di ricerca infinita e senza fine, di rigenerazione senza premessa né prologo, ma solo in costante evoluzione, in perenne divenire. Dopo la mostra presso Fondazione Pisa, potete attualmente scoprire una ventina di opere originali di Keith Haring, realizzate sui muri della metropolitana tra il 1981 e il 1983 ed esposte a Made in New York – Keith Haring (subway drawings) e Paolo Buggiani – La vera origine della Street Art’ allestita ai Magazzini del Sale di Cervia.