Il capolavoro di Arnaldo Pomodoro come simbolo della condizione umana attuale. Alla disperata ricerca di una via d’uscita: in bilico nel tempo, in balia dello spazio.

Mi chiedevo in questi giorni quale fosse l’opera d’arte che più rappresentasse la dimensione umana attuale, sospesa in stato confusionale tra pandemia e relativa quarantena. Tornavo sempre allo stesso punto. Come in un labirinto. Ritornavo sempre sottoterra, nelle viscere dell’ex Riva Calzoni, ora headquarter di Fendi in via Solari a Milano. Ce l’avevo sotto gli occhi, della mente, la risposta. Il Labirinto. Quello intimo e universale di Arnaldo Pomodoro. Il più eloquente luogo metaforico scolpito raffigurante l’intera esperienza umana, ancora più palese e palpabile qui e ora nella realtà odierna. In bilico nel tempo, in balia dello spazio. Nell’amalgama sincronico di passato e futuro.

Siamo tutti dentro (e non di fronte, badate bene) quella scultura ambientale, realizzata dall’artista nell’arco di sedici anni, dal 1995 al 2011. Dispersi nei suoi magmatici meandri, tra scompartimenti di metamorfiche dimensioni, dall’onirico all’inconscio, costellate di ricordi, rimozioni, illusioni, speranze lattiginose e lucide gioie. Disorientati. In cerca di appigli sicuri per navigare a vista il presente, rintracciando un conforto passato, mirando un futuro fragile. Decifrando i linguaggi arcaici e ancestrali che sfilano incisi tra le pareti rotanti e le trame di microchip elettronici ormai sepolte, obsolete, nel dedalo dell’artista, il nostro. Immersi in una condizione straniante e silenziosa, che senza tregua ci sfianca dilatando nel dubbio la coscienza, rimescolandone (per fortuna) le priorità.

Brancolando sopra una contingenza che ora più che mai ci sibila la testa, alla frenetica ricerca di una via d’uscita, o di sicurezza. Ma ritorniamo sempre allo stesso punto, come in quel Labirinto che ci domina e vertigina, il nostro essere gettati nel mondo reso spazio fisico materiale dallo scultore romagnolo. L’unica salvezza percorribile (visto il luogo) è conciliata in noi, come lascia sottendere attraverso la sua creazione Pomodoro. Nulla da inseguire, solo riflettere, accettare la propria vincolante condizione umana. Coltivarne il valore, comprenderne il dedalo dato, imposto, naturale. La forza sta nel perdersi per ritrovarsi, consapevoli della precarietà, il labirinto “non può che essere percorso, nel suo stesso svelarsi motore oscuro di ogni esperienza umana che sempre si compie tra slanci e impasse, arresti e riprese: nel suo progredire verso una maturità che è ritorno all’origine e alla sua incertezza.”

L’opera non è difatti soltanto un luogo fisico, ma anche uno spazio del sapere, antropologico. Stanze temporali in cui si intersecano pareti-soglia dove sono impressi segni e rilievi dal valore astratto, simbolico. Una decompressione temporale e spaziale. Addentrarsi significa fare un viaggio di esplorazione nelle metafore dell’esperienza umana plasmate in bronzo, rame e fiberglass patinato. Un’esperienza totalizzante, evocativa, ai confini del mistico tra le architetture mentali dell’autore, che riflettono quelle di ogni essere umano, tra le rielaborazioni di sculture già note e forme ancora in divenire. Fondate sull’archetipo del labirinto, “luogo ineffabile che ci rimanda all’eterna sfida del segreto della vita e che nei millenni si è manifestato nel mito e nelle arti”.

L’ingresso nel Labirinto, questo il nome completo e corretto dell’opera, è una riflessione e una sintesi sulla parabola artistica del suo creatore. Un racconto scolpito dove si intrecciano i percorsi della natura e della memoria, in una dimensione che trasfigura tracce di civiltà arcaiche in forme quasi fantascientifiche, attraverso l’incontro con figure emblematiche come Gilgamesh (“Amarezza si impadronì del mio animo, la paura della morte mi vinse ed ora io vago in una steppa”) e Cagliostro.

Nella stanza dell’alchimista, un ammasso di detriti ed escrementi ricopre il pavimento, impronte fossili disseminate dappertutto suggeriscono una vita cosmica segreta. Scritture che dialogano con le trame marine del
macroscopico osso di seppia alla parete, mezzo con cui l’artista iniziò a ideare le prime colature. Vicoli ciechi, porte rotanti, camminamenti a ritroso, muri della memoria, convergenze. Immaginazione, illusione, speranza, angoscia. La storia dell’esistenza di ogni essere umano. Oggi, nel silenzio della vita reclusa, un Labirinto più stringente che mai. Ma che necessariamente, per definirsi tale, non può che essere percorso. Perché abitarlo, vivere, significa necessariamente perdersi. E ritrovarsi.