Micheal Ward

Micheal Ward

Dalla Giamaica a Londra, da una ricevitoria di scommesse al film di Sam Mendes che gli è valso il premio di miglior star emergente inglese. Eppure il suo sogno resta quello di incontrare una leggenda della squadra per cui tifa

di Gabriele Niola

Oggi Micheal Ward è un attore che a 25 anni è il co-protagonista di film come Empire of Light di Sam Mendes, già premiato con un BAFTA (gli Oscar inglesi) come miglior star emergente e con all’attivo ben due nomination. Solo quattro anni fa, invece, passava gran parte delle sue giornate dietro il vetro di una ricevitoria di scommesse del quartiere Hackney di Londra, a studiare copioni e sperare in provini. Era il lavoro part-time perfetto per lui, flessibile a sufficienza da poter andare ai provini e così solitario da potersi studiare le battute anche mentre occupava la sua postazione. Tutti scommettono online e in pochi frequentano le ricevitorie. Un anno dopo avrebbe ottenuto il suo primo ruolo di peso, quello nella serie di gangster londinesi Top Boy, e per lui, giamaicano di famiglia ma cresciuto in un quartiere bianco di Londra, è stato cruciale aver frequentato la ricevitoria: «I clienti erano sempre i soliti. Ma ogni tanto entravano individui decisamente loschi, di quelli che poi vengono raccontati in Top Boy. C’erano loro e poi i miei amici che mi venivano a trovare perché pensavano che potessi farli vincere».


Dopo Top Boy è arrivato il ruolo drammatico in una delle puntate della miniserie di Steve McQueen Small Axe e ora il ruolo mondiale in Empire of Light, in sala in questi giorni, che lo ha fatto conoscere anche in America. Micheal Ward è senza dubbio uno degli attori Black British più lanciati, passato in pochissimo dalla ricevitoria alle cene per i BAFTA, i party e gli incontri con gente che fino a poco prima sognava di incontrare. E quando capita, massima professionalità: «Non è che svengo di fronte alle star, semmai sono onorato di poter conoscere qualcuno che stimo». Questo fuori, poi intimamente è un altro conto: «La cosa pazzesca è riuscire a realizzare che sei lì in quella stanza con loro! Voglio dire: ci sono tantissimi attori, anche bravi, che ci mettono anni ad arrivare in quelle stanze o magari non ci arrivano proprio. Mi sento davvero onorato». 


C’è quella volta che si è trovato con Sam Mendes e Roger Deakins, rispettivamente regista e direttore della fotografia del film 1917, o quell’altra in cui ha incontrato l’attore che ammira più di tutti, Leonardo DiCaprio, o ancora quando è riuscito a passare del tempo con il suo mito, il comico Kevin Hart, alle cui battute rideva sempre: «Ma non lo so se erano davvero divertenti, era una di quelle situazioni tipo quando esci con una ragazza e ridi a tutto perché sei felice di stare lì». Tutto molto bello ed emozionante, ma alla fine della fiera, da ragazzo che aveva anche tentato una carriera professionistica nel calcio (rinunciando quasi subito) e da fan sfegatato dell’Arsenal, quando deve menzionare l’incontro che più lo ha segnato il nome che esce è quello di Davor Šuker, mito del calcio croato e attaccante dei “Gunners” nella stagione 1999-2000. Mentre il sogno di una vita rimane la leggenda dell’Arsenal Thierry Henry: «È per lui che ho iniziato a tifare Arsenal. Prima o poi lo devo incontrare».


Nel frattempo si trova in situazioni come quella sul set di Empire of Light in cui deve fare sesso con una donna di 23 anni più grande e vincitrice di un Oscar, Olivia Colman. Situazione in cui interviene il “coordinatore delle scene di intimità”, figura relativamente nuova nel mondo dei set, che si assicura che le scene di sesso siano rispettose e tranquille per tutti: «Non c’era quando tre mesi prima avevo girato una scena simile in Top Boy, quindi mi faceva strano, ma ho capito subito che è fondamentale». La procedura è più articolata di quel che si potrebbe pensare: «Prima la coordinatrice parla con noi due per capire con cosa siamo a nostro agio, poi fa mettere a me le mani di Olivia sulle parti del mio corpo con cui sono a mio agio e lo stesso fa fare a lei. A quel punto io sono più tranquillo, perché non devo proprio pensare a cosa faccio o come lo faccio, so che va bene e posso pensare solo a recitare».


Frullato da quattro anni di ascesa, ma tenuto ancorato a terra da una famiglia che lo tratta come prima e dagli amici di sempre, che gli ricordano continuamente chi è e da dove viene, Micheal Ward sta diventando un buon esempio dell’attore Black British contemporaneo. Aiutato dal lavoro di chi è venuto prima di lui, non fatica più a trovare una parte, come accadeva in passato, anzi, ha molte opportunità: «Lo so che non è così per tutti e c’è ancora molta strada da fare, ma se devo parlare per me, ho avuto la fortuna di poter raccontare le storie che volevo. Oggi c’è molta attenzione a quelle delle persone nere, asiatiche o con la pelle blu forse proprio perché, per tanti anni, sono state ignorate». 


Il dettaglio non da poco, nella conquista di una fierezza e consapevolezza etnica, è quello del Paese di provenienza: la Giamaica. Lì Ward ci è nato, ma è venuto via da piccolo, la sua vita è stata a Londra da che ha memoria. Aveva sempre creduto che crescere in una famiglia giamaicana fosse praticamente come crescere in Giamaica. Poi in Giamaica ci è andato: «Ci sono stato due anni fa per la prima volta da 20 anni! Ed è speciale. C’è molto più di quel che ti immagini. Ad esempio la musica giamaicana oggi è molto di più del reggae. L’identità della Giamaica è forte e la conoscono tutti, ma la realtà è molto più varia e io voglio farla conoscere».

Nell’intero servizio Micheal Ward indossa total look Fendi

Photos by Giampaolo Sgura, styling by Edoardo Caniglia

Grooming: Nadia Altinbas @A-Frame Agency. Styling assistant: Valentina Volpe