Rebel est un mot anglais

Rebel est un mot anglais

di Fédéric Martin-Bernard

50 anni di moda sempre “contro”. L’Inghilterra è stata la culla e rimane il primo Paese al mondo in cui la “ribellione vestimentaria” sembra poter rinascere in qualsiasi momento

Faccio sempre questo errore in francese. Scrivo “rebel” all’inglese, con una sola “l”, mentre il termine viene dal latino rebellis e nella lingua di Molière si scrive “rebelle”. La colpa è di David Bowie e del titolo Rebel Rebel, che ci trasporta immediatamente sull’altro lato della Manica. E di tutti i suoi connazionali del mondo della moda, gli stilisti britannici, che sono i più intrepidi e iconoclasti del settore, stagione dopo stagione, generazione dopo generazione. L’ultimo di questi stilisti di Albione, che sono tutt’altro che degli inconcludenti, è forse Charles Jeffrey, con la sua giovane etichetta Loverboy. Diplomato alla Central Saint Martins, questo scozzese non ha cercato di fare incetta di esperienze professionali prima di lanciarsi “in solitaria”. Fresco di diploma, nel 2015 prende d’assalto le passerelle londinesi, catturando l’attenzione con le sue sfilate-performance che non lasciano indifferenti. Il suo concetto di fashion è ricco di stile, un po’ provocatorio e lievemente irriverente: un mix di generi e, soprattutto, con molteplici riferimenti alla corrente punk di cui l’Inghilterra è stata la culla e rimane, a 50 anni di distanza, il primo Paese al mondo in cui questo movimento di “ribellione vestimentaria” sembra poter rinascere da un momento all’altro.

Designer Charles Jeffrey LOVERBOY, right, gives the last touches to a model’s outfit on the backstage during the Autumn/ Winter 2018 London Fashion Week show at Topman Showspace, London. (Photo by Isabel Infantes/PA Images via Getty Images)

Ma da dove deriva questo bisogno di prendere le distanze dal concetto di apparenza tipico dei britannici? Forse il fatto di essere obbligati a indossare un’uniforme per tutto il periodo scolastico spinge qualcuno a volersi vestire fuori dagli schemi non appena l’età adulta lo consente? E lo stesso caro stile inglese tradizionale, che comporta una pletora di usi e costumi, regole e vincoli dove il minimo filo di tartan riveste un significato, rimanda a un clan familiare o a una dinastia, non incita forse a modificare, mascherare, strapazzare e lacerare tutti questi codici di abbigliamento nazionale per proclamare la propria disapprovazione? Una disapprovazione che non si può esprimere a parole nel Paese del politicamente corretto e di sua Maestà la Regina.Trascorsi gli anni e superati gli stili ci si è d’altronde dimenticati che la moda punk è nata come movimento di contestazione politica e sociale. Alcuni gli attribuiscono dei prodromi, all’inizio degli anni 70, negli Stati Uniti, attraverso alcuni gruppi musicali che hanno composto brani di chitarra satura, in totale rottura con il movimento hippie e le sue canzoni sognanti. Ma la corrente punk ha preso piede soprattutto in Inghilterra: stanchi del conservatorismo al potere, delle regole e dei doveri, della disoccupazione e delle disuguaglianze in tutto il Regno, artisti indipendenti producono una musica dura, contestatrice, che si fa beffe della disco e delle armonie in voga nel pieno degli anni 70. Ricordiamo in particolare i Sex Pistols, il cui manager, Malcolm McLaren, è il marito di una certa Vivienne Westwood. La stilista, che aveva ricevuto una formazione da maestra, nel 1971 apre un negozio in King’s Road a Londra, dove si vendono dischi in vinile e abiti vintage legati al mondo del r&r americano. Di volta in volta, questa bottega prenderà il nome di Paradise Garage, Too Fast to Live, Too Young to Die, Sex e, nel 1977, Seditionaries. Sugli scaffali, gli abiti sono sempre più logori, strappati, tempestati di borchie, rattoppati e rammendati… L’intento di questi capi trash è quello di demolire l’establishment dell’abbigliamento. Quadri, tartan e altri tessuti in principe di Galles vengono completamente stravolti. Il “do-it-yourself” è il metodo perfetto per sottrarsi alle tendenze dominanti seguite dalla massa. Si taglia, si rammenda, si tinge, si appuntano spille da balia, si scrivono slogan… Gli abiti punk sono come dei manifesti per esprimere la propria diversità. Presto Vivienne Westwood sarà incoronata regina di questo movimento, con i suoi look estremi e i capelli sempre scompigliati. Nel 1980 il negozio di King’s Road viene ribattezzato nuovamente, questa volta in World’s End. Due anni dopo, la stilista comincia a presentare delle collezioni indipendenti.

A man with a mohawk haircut and Union Jack t-shirt on the route of the Gay Pride parade, New York City, USA, June 1990. (Photo by Barbara Alper/Getty Images)

Sono quindi più di 40 anni che Vivienne Westwood è un marchio e né lei né il suo secondo marito, l’austriaco Andreas Kronthaler (che collabora con lei da circa 30 anni), hanno mai abbassato la guardia. Hanno sempre qualche battaglia da combattere (per la difesa dei diritti umani, la promozione della diversità o la salvaguardia del pianeta) e qualche collezione da lanciare, sempre fuori dall’ordinario. Ci vuole una grande forza per riuscire a rimanere fedeli alle proprie convinzioni originarie senza mai smettere di rinnovarsi. Questa forza non è certamente appannaggio esclusivo degli stilisti britannici, ma è comunque connaturata nella maggior parte di loro, a prescindere dalle differenze di carriera e personalità. Coeva di Vivienne Westwood, anche Katharine Hamnett è una stilista dalle posizioni radicali. Insorge apertamente contro il governo del suo Paese e crea delle T-shirt su cui esprime a chiare lettere il proprio pensiero. I suoi modelli guadagneranno le copertine delle riviste ma, al contempo, la faranno cadere in disgrazia.

The back of a leather clad Punk Rocker with ‘God Save The Queen’, a swastika and a Union Jack decorating the jacket. (Photo by Chris Moorhouse/Getty Images)

Non meno ribelli, le generazioni successive di stilisti britannici impareranno meglio a imporre degli stili e delle idee fuori dagli schemi, sviluppando al contempo un proprio business. Dopo i fiorenti anni 80, che hanno spinto dei finanziatori a decidere di investire nell’industria della moda e del lusso, bisogna riconoscere che l’intero settore ha puntato gli occhi su Londra e i suoi giovani talenti fuoriclasse. John Galliano è il primo di questi britannici al contempo ribelli e geniali a essere ingaggiato da un grande gruppo. Nel 1995 viene reclutato da LVMH per dare una sferzata al lato chic del marchio Givenchy, per poi ricoprire il ruolo, l’anno successivo, di direttore artistico delle collezioni haute couture e prêt-à-porter donna della maison Dior, che rivoluzionerà per una quindicina d’anni giocando con i suoi codici in maniera radicale, talvolta sfrontata, ma sempre creativa. Anche Alexander Lee McQueen, che lo ha sostituito da Givenchy, non è il tipo da conformarsi alle regole. Segue solo il proprio istinto per creare collezioni sbalorditive che spesso raggiungono il sublime. Se il loro ambito preferito è la moda donna, entrambi si ispirano all’arte e alle tecniche degli abiti maschili per dare corpo alle proprie idee. Diverse stagioni più tardi, intorno agli anni 2000, quando lanceranno la propria linea uomo all’interno della rispettiva maison, non tratterranno il loro entusiasmo con il pretesto che la moda maschile debba essere più sobria. McQueen, che ha condotto gran parte del proprio apprendistato nell’atelier di Savile Row, dove gli è stata inculcata l’importanza di rispettare il drittofilo del tessuto, sceglie addirittura di tagliare gli abiti di sbieco per ottenere una caduta particolare, diversa da tutte le altre.

UNSPECIFIED – circa 1970 Photo of CROWDS and PUNKS and 70’S STYLE (Photo by Caroline Greville-Morris/Redferns)

Ignorare le consuetudini, sfatare le tradizioni, portare lo stile all’estremo per agitare le acque e abbattere qualche diktat della moda uomo è l’atteggiamento anche di giovani leve come Joe Bates, Sid Bryan e Cozette McCreery del marchio Sibling, Charles Jeffrey, Craig Green o JW Anderson quando lancia il proprio marchio nel 2008. Oggi lo si è dimenticato, ma le sue prime collezioni erano rivolte esclusivamente all’uomo. Usava spesso tessuti classici, rassicuranti, tipicamente inglesi, per adattarsi meglio a tagli sperimentali, alla frontiera dei generi. Nel 2013 viene nominato direttore artistico della maison spagnola Loewe. Parallelamente a questo ruolo e al proprio marchio, ha coltivato diverse collaborazioni (Converse, Uniqlo, Moncler…) da cui è sempre promanata una tensione, una certa stravaganza, per non dire irriverenza. Nonostante il successo conseguito, Anderson trasmette l’idea di non rinunciare mai a un atteggiamento di ribellione che dà sapore alle sue collezioni, stagione dopo stagione, a prescindere dalla maison.