Vivienne Westwood: il punk che ha cambiato la moda

Vivienne Westwood: il punk che ha cambiato la moda

di Mariuccia Casadio

Tributo alla regina del punk che ha affrontato il conformismo, l’autorità e il patriarcato, dando voce a una generazione più libera, sovvertendo convenzioni, etichette e pregiudizi

Andrò a ruota libera, perché vano sarebbe il tentativo di restituirne la personalità, le idee, l’impegno, le cause in tutta la loro portata e importanza. Tanto più impensabile mi appare la possibilità di ridurla a un ordinato piccolo elenco di fatti. Per questo tenterò di ricordarla a memoria, sentendomi libera di saltare, omettere, dimenticare, senza allontanarmi troppo da quello che di Vivienne Westwood più mi ha toccato e ho vissuto in prima persona. E se la sua recente scomparsa ha scatenato l’universo mediatico, diluvi di post, parole, lacrime, testimonianze, attestati di empatia, di rispetto, di amicizia, di stima e di rimpianto, io, devo dire, alla notizia mi sono sentita come svuotata, commossa e ammutolita di fronte a quello che il tempo ci porta in dono e può portarci via a suo piacimento. Eppure ho finito per commentare anch’io la perdita sull’onda di mille incasinate emozioni… quello che la moda dovrebbe essere, oltre le forme, i prodotti, le immagini pubblicitarie ubique e le strategie di marketing, dico la moda delle idee, della coralità e del coinvolgimento; quella con cui esprimersi e comunicare davvero che lei ha promulgato e che non esiste più. Se ne va con persone come Dame Vivienne, che ci lascia sempre più soli e oppressi dallo stato delle cose.


Vivienne Westwood (Photo by Derek Hudson/Getty Images)

Non è solo lei, la persona, che è mancata e mancherà. È che ci ha reso orfani dell’epoca di cui è stata simbolo, attiva garante e ispirata portavoce. Un lungo tempo che ha formato tutti o quasi, a cui il punk ha dato il via. Incancellabile, certo, un “real blast”, come ricordava lei. Non solo per la vitalità e intensità straordinarie con cui, sappiamo tutti, ha fatto a pezzi note, pentagrammi, accordi e strumenti musicali, contrapponendo il brutale al carino, l’anarchia al sistema di governo, il menefreghismo e le aperte trasgressioni alla composta e very British osservanza delle regole. A inventare il punk e a imprimerlo per sempre nell’immaginario è stata però proprio Vivienne Westwood, e prima e più ancora dei Sex Pistols. Lei, lo spirito guida di un momento, un umore generazionale. Lei che lo ha reso fondante, movimento culturale e modello di stile di portata planetaria. Lei che così ha cambiato per sempre i connotati alla moda. La faziosa e pedante predestinazione dei materiali e dei colori, le discriminazioni tra femminile e maschile, scadente e prezioso, sdrucito e brand new, homemade e hand tailored, outfit, underwear e nudità. Trasformando il vestire in un linguaggio ribelle, inclusivo, noncurante e sedizioso, consapevole ed espressivo di sé, in grado di parlare per noi, capace di attrarre, atterrare e urlare contro tutti, che ha fatto deflagrare i paletti del conformismo, avversando lo status quo senza censure né remore. Vivienne ci ha messo solo passione e coraggio in quei lontani primissimi Settanta. E a questo punto, a ruota libera, da ricordare c’è molto.


Malcolm McLaren e Viviane Westwood<, (Photo by Daily Mirror / Bill Kennedy/Mirrorpix/Mirrorpix via Getty Images)

La partnership e la collaborazione con il manager e promoter musicale Malcolm McLaren, un altro abrasivo grande genio. L’ormai mitico shop, allora davvero fuorimano, al 430 di King’s Road aperto insieme, che, mentre la strada e le idee si evolvevano, cambiava nome: Let It Rock prima e Too Fast to Live, Too Young to Die solo pochi mesi dopo nel 1971, poi SEX nel 1974, e così da celebrare un iperbolico passaggio al fetish e al latex, un voltafaccia per sempre al rock’n’roll, alle sue memorabilia e alle sue mitiche leather jacket. Poi, qualche anno dopo, intorno al 1976, diventa Seditionaries, un propellente commerciale del punk, che definisce ormai uno status, una fede. A quel punto si può già parlare di luogo di culto dello stile da non perdere mai di vista. Quello shop si trasforma nella tappa obbligata, la prima attrazione in città dei giovani londinesi e di tutti quelli in arrivo da ogni dove. Nasce a questo punto la febbre degli abiti second hand, o che almeno risultano tali. Consunti, strappati, tenuti insieme con spille da balia, borchiati, documentano un’incancellabile potente destabilizzazione del conosciuto. Soprattutto quelle T-shirt inside-out che diventano bandiera, arte, manifesto, pervase di scritte a pennarello, grafiche, titoli di stampa o fotografie trasferite su tessuto con qualche solvente, cuciture a vista, che ne hanno mutato per sempre l’identità e il significato, facendo di un pezzo corrente e universale dell’underwear un must transepocale.

Models wearing Vivienne Westwood clothes, outside the Worlds End Shop, London 1980’s. (Photo by: PYMCA/Universal Images Group via Getty Images)

Ma non è finita qui. Anzi, direi che uno dei capitoli più importanti della sua carriera è legato al decennio successivo. Lo shop viene ribattezzato World’s End nel 1980, mentre tutta la città, grazie al suo contributo, torna a essere cool. Dopo gli anni della Swinging e di Mary Quant, infatti, la City e le sue periferie dettano di nuovo legge da Occidente a Oriente. E mentre Rei Kawakubo debutta in Giappone con i suoi look post-atomici, non senza avere fatto tesoro delle regole già infrante con successo da Vivienne Westwood e ben decisa a trovare una sua propria antagonistica strada, la regina londinese dell’anticonformismo debutta con una vera e propria collezione. La intitola “Pirates” e a quel mondo stylé ma al tempo stesso cialtrone e scomposto s’ispira, centrando di nuovo il bersaglio. Sull’onda di una bellezza anonima e periferica, un disagio giovanile che Vivienne ha valorizzato, fatto apparire attraente, desiderabile e sexy nascono una marea di fenomeni. La rivista The Face di Nick Logan, consacrata all’identità personale e ai molteplici linguaggi, fatti e luoghi che contribuiscono a contestualizzarla, spiegarla, metterla in luce. E poi l’estetica “Buffalo” dello stylist e designer Ray Petri, che, con un talento a tutt’oggi scioccante, ridefinisce la moda e il genere maschile, liberandolo da definizioni di genere, uniformi, omologazioni e proiettandolo dritto nell’oggi. Nasce poi nell’East End The House of Beauty and Culture, una factory che, da John Moore a Judy Blame, raccoglie un gruppo di giovani designer, creatori di abiti e accessori fatti a mano. Mentre Leigh Bowery, artista di performance en travesti, si disegna, si taglia e cuce in casa gli strepitosi provocatori modelli con cui va in scena di notte in discoteche come il celebre Taboo. Si tratta di pochi esempi generati da un humus londinese che ho nel cuore, e di cui Vivienne Westwood è stata il motore, l’esempio, l’ispirazione…

Vivienne Westwood World’s End Fashion show “Pirates”, Autumn/Winter 1981-82, the first catwalk show of Vivienne Westwood and Malcolm McLaren, at Olympia, London, 22 October 1981. (Photo by David Corio/Redferns)

Aggiungerei in ultimo una lista di alcune sue idee molto brillanti in quel periodo, intuizioni che hanno cambiato la vita e il nostro modo di vedere le stesse cose: il corsetto vittoriano, la crinolina, i panier, le platform, le giacche da equitazione rivisitate, con i revers a forma di cuore e per finire il twin set con filo di perle per l’uomo. Insomma una sfilza non stop di scelte e immagini incancellabili, che appartengono ormai al mito. Mi resta la fortuna di avere respirato la sua rivoluzione, so di averla vissuta da vicino e interiorizzata, come una lezione generosa e incancellabile di libertà, emancipazione e grande, enorme sensibilità.


Elio fiorucci e Vivienne Westwood al plastic di milano nel 1998. Photo by Nicola Guiducci

Nota in calce: nel 1975 anche Elio Fiorucci apre un suo store su King’s Road. E Vivienne Westwood, che lo ha definito “il maestro di tutti noi”, la incontra, la frequenta, sono amici, la ospita a Milano. Così come i Missoni, che con lei collaborano in tempi non sospetti. E così come in seguito uno dei suoi soci e producer del post McLaren, Carlo D’Amario, che entra in scena a metà degli anni Ottanta ed è in quel periodo mio vicino di casa. Anni cruciali, ma significativi di un talento che si è nutrito di successi, ma anche cadute, che resta pur sempre capace non solo di rialzarsi, ma di sollevarsi da terra. Arrivare al cospetto della Regina. Essere insignita Dame. Restare nel tempo, tornare e ritornare a essere uno spirito guida. Schierata nella difesa dell’ambiente, della natura e dei diritti umani. Insomma, impegno non stop per un’icona che non ha mai perso il sorriso. Non ci lascia soli, ci resta la sua storia. Un esempio di coraggio, sfrontatezza e intraprendenza per la moda a venire. Da tenere sempre a mente e davanti agli occhi, bella come un film.

Nella foto di apertura Vivienne Westwood fuori dal tribunale dei magistrati di Bow Street dopo aver affrontato una causa con l’accusa di violazione dell’ordine pubblico, il 30 agosto 1977. Photo by Getty Images